Così Lucano sfruttava i migranti
I lungopermanenti eterni e i profitti illecitamente ottenuti: così il “modello” gravava sulle casse dell’intero sistema di accoglienza, con uno sperpero milionario di denaro pubblico
C’è ancora chi si ostina a decantare la presunta bontà del “modello” Riace e del dominus che c’era dietro. Di fronte alle evidenze legali, tuttavia, non ci sono petizioni e candidature per in Nobel che tengano. Quelle messe insieme dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’operazione Xenia raccontano – parallelamente a quelle della Procura locrese di cui abbiamo dato a più riprese conto – di un sistema articolato e delineato, questa volta, prima di tutto tramite la scia di denaro che ha lasciato. “Segui i soldi”, diceva Giovanni Falcone. Gli inquirenti lo hanno fatto e li hanno trovati dapprima tra le righe di onerose convenzioni con la Prefettura di Reggio Calabria interrotte bruscamente nel 2017, poi nel danno erariale per le casse dello Stato e infine – ma non da ultimo – nella situazione economica personale decisamente risollevata di chi faceva parte del Sistema Riace.
Il “modello” dei lungopermanenti eterni che lascia fuori tutti gli altri
La “tipologia” di migranti che hanno toccato suolo riacese si può dividere in due categorie: quelli che ci sono passati di sfuggita e si sono fermati giusto il tempo per negoziare documenti con l’ex sindaco o per contrarre matrimoni fasulli, e quelli che ci rimanevano oltre il tempo previsto oppure risultavano su carta. Chi era in grado di entrare nelle grazie di Lucano, Lemlem e dei componenti delle associazioni, veniva sistemato nelle abitazioni destinate ai progetti temporanei (della durata massima di sei mesi) che, nei fatti, duravano anche anni. O venivano fatti risultare, pur non venendo nei fatti erogati. “Se questi stanno qui oltre il tempo vuol dire che o non gli hai fatto niente o non gli puoi fare più niente”, dice uno degli ispettori giunto da Roma a Riace per sistemare le magagne dell’ex sindaco, che dal canto suo nel corso della visita di un uomo presso la sede di Città Futura, confida:
“Lo faccio apposta io per aumentare il numero delle persone che rimangono, quindi per seguire una mission abbiamo bisogno dei numeri. Loro mi stanno rispondendo che è chiuso, io sto facendo così”.
Riace si svuota
Lucano, dunque, non solo è perfettamente conscio delle storture burocratiche intavolate da lui e dal resto dei componenti della associazioni (contrariamente a quanto sosterrà a più riprese pubblicamente) ma ne è il consapevole promotore. I lungopermanenti gli permettono di fare numero perché, si legge nella relazione della Gdf, a Riace i migranti non venivano inviati più proprio a causa delle storture rilevate nel corso delle numerose visite ispettive. Le convenzioni con la Prefettura di Reggio, inoltre, vengono interrotte nel 2017: è l’anno in cui il “modello” finisce nel silenzio generale e, a eccezione degli Sprar interrotti dal Viminale a ottobre dello scorso anno, non c’è in piedi nessun progetto. A Riace non ci arriva più nessuno, ma il sistema è alimentato da chi è stato fatto rimanere appositamente oltre il tempo previsto o, semplicemente, risulta su carta pur non essendo fisicamente a Riace.
Il danno erariale e quello arrecato ai migranti
La situazione dei lungopermanenti ha causato in primo luogo un danno milionario per le casse dello Stato, e secondariamente ha impedito – per dirlo alla stregua degli inquirenti – “il turnover dei migranti”. Aspetto che ha provocato lo spostamento di chi tra questi aveva reale bisogno in altre strutture, causando in alcuni casi il sovraffollamento delle stesse. “Se ha bisogno una famiglia con bambini che facciamo?”, è la domanda che una delle dottoresse giunte da Roma pone a Lucano e ai componenti delle associazioni radunati presso la sede di Città Futura. Il riferimento è agli alloggi occupati dai migranti vicini a Lucano e dai suoi sodali. Diarra Moussa per esempio, che risultava ospite della cooperativa Girasole per 366 giorni nel 2016 pur contando, nello stesso anno, su redditi di lavoro dipendente per quasi 10mila euro. Una situazione più che paradossale che a conti fatti ha danneggiato proprio i migranti che realmente avevano bisogno, e che da Riace non ci sono neppure potuti passare.
Ma Lucano non ha “l’interesse” di risolvere
Per l’ex sindaco di Riace la situazione doveva rimanere immutata, tanto che era lo stesso Lucano a dare disposizioni in merito alla segretaria di Città Futura e responsabile della banca dati Cosimina Ierinò. E a pensare di togliere i migranti quando la situazione dei lungopermanenti era diventata ingestibile e Lucano – un po’ pervaso da timore e un po’ nel tentativo di convincere gli ispettori – diceva di voler “chiudere tutto”.
Lucano: va bene, tanto ne abbiamo … inc. … in questo modo, toglili tutti! …
Toglili tutti tanto noi li abbiamo lo stesso qua, tanto poi le case avevamo
detto che le davamo a questo Salerno, le case ce le abbiamo …
Ierinò: li dobbiamo solo spostare, non ci sono problemi …
Lucano: si, si, si tutto quel programma di integrazione che avevamo pensato prima mettiamolo da parte …
Mettere “da parte” l’integrazione e scomodarla all’occorrenza?
A Riace succedeva anche questo. Di più. “Nel corso delle intercettazioni è emerso in maniera lampante che il sindaco Lucano e i presidenti delle associazioni, pur consapevoli della presenza di lungopermanenti, hanno omesso di porre in essere alcun comportamento volto a risolvere la problematica arrecando, di conseguenza, un danno alle casse dello Stato”. Gli inquirenti sono chiari e calcolano, nell’ammontare del danno, la quota pro-capite per migrante pagata 35 euro al giorno oltre i termini previsti. Per il progetto Sprar costato 1.045.835, solo per fare un esempio, i giorni di permanenza senza averne i diritti per alcuni migranti sono stati 29.881.
Appezzamenti di terre e titoli: l’accoglienza (a convenienza) paga
A queste, poi, vanno aggiunte le cifre a sei zeri che hanno risollevato le sorti economiche di chi sulla (presunta) accoglienza ci ha costruito la propria fortuna. C’è chi contava su decine di libretti di risparmio e titoli, chi ha comprato appezzamenti di terra per tutto il Reggino per più di 500mila euro e chi, come il sindaco Lucano, non ha lasciato traccia del maltolto per l’utilizzo frequente di liquidità – affidata soprattutto a Lemlem – e perché il disbrigo delle sue faccende economiche veniva demandata ad alcuni componenti delle associazioni. E’ il caso di chi, per sdebitarsi dei “favori”, pagava l’alloggio universitario alla figlia di Lucano.
FREE SPEECH
La paghetta per i giornalisti che daranno “priorità alle questioni legate al clima”
Dopo i colpi inferti dal governo e dalla riforma Nordio alla Libertà di Espressione, un altro mal costume continua a minacciare l’autonomia di giornalisti e comunicatori. C’è chi tenta di silenziare quelli che fanno il loro lavoro a suon di querele temerarie e di campagne diffamatorie e chi, invece, vorrebbe ridurre i più manipolabili a meri burattini che ripetono a pappagallo gli slogan del politicamente corrotto in fatto di Sanità, di migranti, di Europa, di rapporti sociali. E di clima, ovviamente.
Su quest’ultimo terreno – squisitamente agendista – si concentrano ora le ansie del Centro europeo di Giornalismo, che periodicamente eroga delle paghette, sotto forma di premi, ai giornalisti che “si distinguono” in un determinato settore. Abbiamo già scritto dei finanziamenti da 7500 dollari da parte dello stesso ECJ e della fondazione Bill & Melinda Gates destinati a quei comunicatori che influenzano l’opinione pubblica in tema di Sanità.
Questa volta, invece, il premio – da 2000 euro ed erogato sempre dal Centro europeo di Giornalismo – è per coloro i quali daranno “priorità alla segnalazione di questioni legate al clima” in articoli o reportage pubblicati dal 14 al 17 giugno. Cosa significhi dare priorità non è dato saperlo, ma quel che è certo è che a dare man forte alle narrazioni costruite ci sarà anche Google News, il servizio della Big Tech già multata per propaganda e favoritismi, anche in Italia. In che modo e con quali toni, poi, i giornalisti parleranno e scriveranno di siccità, alluvioni e di “emergenze” climatiche (sapendo che ad attenderli ci sarà una ricompensa), c’è solo da immaginarselo.
POLITICA
La conferenza bilaterale sulla ricostruzione dell’Ucraina in dieci scatti esclusivi
INTERVISTE
Il racconto della figlia del 72enne di Guardia Piemontese deceduto dopo ore di odissea
Antonio Caroccia era un 72enne di Guardia Piemontese, un paesino in provincia di Cosenza, in Calabria. Riferiscono i familiari, assumeva dei farmaci ma godeva di buona salute, era attivo e non era affetto da nessuna patologia. Il 5 marzo dello scorso anno avverte un dolore all’altezza dei reni. E’ tardo pomeriggio, Antonio è vigile, cosciente, i familiari sono preoccupati ma nessuno si immagina quello che sarebbe successo da lì alle ore successive, con una diagnosi iniziale sbagliata, “circa due ore e mezzo di attesa presso il pronto soccorso della clinica Tirrenia Hospital” – racconta una componente della famiglia – assenza di ambulanze, posti letto per ottenere i quali è necessario fare opere di convincimento, esami mai giunti a destinazione. Che sarebbe successo se i medici non avessero erroneamente diagnosticato un infarto e se il signor Antonio fosse giunto subito nel reparto di Chirurgia? Secondo i familiari, il decesso forse poteva essere evitato. Una delle due figlie, Valentina, ci ha spiegato le motivazioni alla base di questo convincimento.
Lei sta portando avanti una battaglia per il riconoscimento di un caso di malasanità che potrebbe aver causato il decesso di suo padre. Ha avuto risposte dalle Istituzioni?
Il 28 marzo ho inviato una PEC al ministero della Salute, alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Paola e Cosenza e al presidente della Regione Calabria in qualità di commissario ad acta della Sanità. Il ministero mi ha risposto l’11 aprile chiedendo alla Regione di relazionare sull’accaduto e domandando di mettermi a conoscenza degli esiti. La Regione ha scritto all’Asp di Cosenza limitandosi di fatto a fare da tramite, senza esprimersi sull’accaduto. Mi ha risposto allegando semplicemente i documenti ricevuti dall’Asp stessi, per giunta incompleti. Il tutto dopo circa tre mesi, durante i quali ho fatto numerosissimi solleciti telefonici e via mail.
Dal decesso di suo padre in poi è stata costretta ad appellarsi continuamente, oltre che alle istituzioni, alle strutture sanitarie coinvolte. Ha trovato disponibilità o chiusura?
Sostanzialmente dopo aver fatto più solleciti con le istituzioni ho trovato qualche forma di apertura. Il resto è stato un po’ sorprendente, anche per quello che riguarda le risposte del direttore della centrale operativa. Mi è capitato di fare presente il comportamento di un infermiere che con mio padre era stato sgarbato e poco professionale, ma la mia versione è stata messa in dubbio.
Sta dicendo che ha denunciato il comportamento di un infermiere e l’ospedale interessato non ne ha voluto saperne di più? Non è stata avviata nessuna indagine interna per comprendere se si era in presenza di una negligenza o di un disservizio?
No, assolutamente no. Anzi ho avuto l’impressione contraria, cioè che facessero da scudo a chi era intervenuto quella sera. Mi sono anzi sentita dire dal direttore della centrale operativa del 118 le testuali parole: “posto che ciò corrisponda a verità, come fa notare la scrivente signora Valentina Caroccia, rientra nei comportamenti personali del singolo, sicuramente censurabili, ma non perseguibili”.
Della vicenda che ha raccontato a Rec News ha fatto molta impressione l’atteggiamento di parte del personale sanitario coinvolto.
Abbiamo provato tanta rabbia, tanta tristezza e tanto dolore. Quando i sanitari sono venuti a casa per soccorrere mio padre non riuscivano a trovargli la vena e sgarbatamente gli davano dei comandi del tipo “Metti il braccio così”, strattonandolo. L’hanno poi portato giù sulla sedia a rotelle a petto nudo, faceva pure freddo perché era quasi sera. E’ stata mia madre a coprirlo. Alla Clinica Tirrenia Hospital doveva essere ricoverato, come testimoniano gli audio, su indicazione del medico del 118 intervenuto e del cardiologo dell’UTIC di Paola (la terapia intensiva cardiologica, nda), ma arrivati lì non volevano ricoverarlo, non ho capito per quale ragione. Il medico del 118 si è rivolto a mia madre e a mio zio dicendo: “Dovete insistere per fare uscire il posto”.
“Insistere per fare uscire il posto” è una frase strana.
Alla fine comunque è stato accettato presso il pronto soccorso della Tirrenia Hospital, ma quando i sanitari della stessa hanno ritenuto di dover trasferire mio padre presso l’ospedale Annunziata di Cosenza la clinica non era in possesso di alcuna ambulanza. Ho scavato per capire le motivazioni e chiesto spiegazioni, ma la clinica in tutta risposta mi ha scritto tramite legale facendo finta di non sapere che ero una parente diretta. Ho parlato anche con il vicedirettore della clinica Tirrenia Hospital perché in tutto questo è stato anche smarrito un esame che si chiama emogasanalisi che la clinica sostiene di aver effettuato e di aver consegnato all’ambulanza di Amantea che ha trasportato papà in un secondo momento. Sta di fatto che di quest’esame non c’è traccia.
Non si trova un esame di marzo del 2022?
Non si trova. Il vicedirettore sostiene che sia stato consegnato ma le cose sono tre: o non è stato effettuato, o è stato fatto e non è stato consegnato o è stato consegnato ed è stato smarrito. Al vicedirettore ho anche domandato come mai l’ambulanza non fosse disponibile e lui ha risposto che ne hanno solo una e che era impegnata per il trasferimento di un paziente leucemico a Reggio Calabria. Pensare che la Tricarico è l’unica clinica della costa tirrenica cosentina ad avere l’emodinamica. Mio padre del resto non doveva neppure essere lì, perché la diagnosi inziale di infarto si è poi rivelata sbagliata.
Negli audio vagliati da Rec News si sentono anche i sanitari che rispondono flemmatici e le attese lunghe intervallate dalla Primavera di Vivaldi…
Infatti si nota subito l’incapacità di comunicare e gestire l’urgenza. Si passano il telefono di persona in persona. Mancavano mezzi, preparazione e c’era pure chi rispondeva scocciato alla richiesta di intervento.
Suo padre è deceduto dopo un’Odissea durata ore e ore.
Era un codice rosso. Avrebbero dovuto mobilitarsi subito, non avere quell’atteggiamento rilassato passandosi il telefono di persona in persona.
C’è stato anche quel problema “di connessione” che ha impedito a un esame di arrivare a destinazione.
Quando si fa l’ECG a casa, a esito ottenuto c’è il consulto tra il medico che è sul posto, del medico che è in centrale operativa e del medico di turno all’UTIC di competenza, in questo caso l’UTIC di Paola. Però alla centrale operativa del 118 l’esame non è mai arrivato per mancanza di linea. E’ arrivato però, come documentano gli atti, all’UTIC di Paola, quindi gli unici due che hanno avuto modo di confrontarsi sono stati il medico del 118 che è venuto qua a casa e il cardiologo. Il medico non è stato assolutamente in grado di gestire la situazione. Mio padre era a casa lucido e cosciente, avvertiva un dolore all’altezza dei reni ma gli è stato diagnosticato un infarto. Quando è stato trasportato sulla seconda ambulanza già non rispondeva e secondo i referti aveva già i valori sballati. Dopo ore di attesa, due ore circa delle quali presso la Tirrenia Hospital, è deceduto.
Mi diceva che in un referto clinico anziché scrivere “sottorenale” hanno scritto “soprarenale”. Sono questioni di lana caprina oppure ha senso porsi delle domande?
Sì, ha senso porsi il quesito e stiamo seguendo anche tutta la parte medica per comprendere meglio come si sono svolti i fatti. Sappiamo che è arrivato in Chirurgia all’Annunziata in condizioni già critiche e che i medici hanno innestato le protesi. L’operazione è durata circa due ore e mezzo e da come si legge dalla cartella clinica ci sono stati due arresti cardiaci, uno dei quali ripreso con il defibrillatore. Hanno provato a recuperarlo, ma all’una e trenta di notte è stato constatato il decesso.
Nel caso di suo padre la diagnostica appare mancante o errata.
Sì, non gli è stata fatta la TAC a contrasto che avrebbe dovuto evidenziare le rotture subentrate che inizialmente non c’erano, e poi gli è stato diagnosticato, sbagliando, un infarto. Mio padre aveva bisogno di essere trasferito immediatamente, e sottolineo immediatamente, presso la struttura dove è stato operato, invece è stato perso inutilmente tanto tempo e non c’erano neppure i mezzi per effettuare il trasporto.
La prima diagnosi di suo padre è avvenuta tramite telemedicina, però il referto non è mai giunto a destinazione per un problema di connessione. Il timore è che determinate procedure macchinose che coinvolgono tanto personale sanitario e tante unità distanti tra loro, possano mettere in pericolo il paziente. Se si spezza un anello della catena, i rischi possono superare i vantaggi.
Ma se alla fine mi sono sentita dire “Ritieniti fortunata che quella sera c’era il medico con l’ambulanza”, perché la prima ambulanza è venuta 5 minuti dopo la chiamata, ma solo perché stava facendo rifornimento lì vicino. Mi sono vergognata per loro a sentire frasi del genere. Per riuscire a fare gli accessi agli atti che riguardano il decesso di mio padre mi sono trovata di fronte a telefoni sbattuti in faccia. Se scegli di fare il medico devi avere una vocazione, una passione, ma se poi non hai professionalità e sei perfino disumano, è meglio che cambi mestiere. Ora non c’è solo il dolore, ma anche la rabbia.
INCHIESTE
L’Odissea lunga otto ore, poi il decesso. Storia di Antonio, vittima di un caso di malasanità
Commissariamenti, carenze di posti letto, personale e attrezzature, negligenze. Pur esistendo picchi di eccellenze, curarsi e ricevere soccorso in Calabria si rivela spesso un terno al Lotto, con esiti anche letali. Lo documentano i numerosi fatti di cronaca e lo sa bene la famiglia di Antonio Caroccia, 72enne di Guardia Piemontese. E’ il 5 marzo di quest’anno quando – intorno alle 18.00 – avverte un dolore lombare che nel giro di una decina di minuti si trasforma in un malessere generale. Alle 18.50 circa è chiaro che la situazione è preoccupante, ma recuperabile. Nel giro di un’ora il signor Caroccia tenta di farsi spalmare un unguento nell’illusione di poter allievare il dolore, cerca di misurarsi la pressione e alla fine si accascia al suolo. Sta male ma da lì alla serata rimarrà“vigile, collaborante e orientato nel tempo e nello spazio”, si legge nella relazione del Tirrenia Hospital di Belvedere Marittimo, dove giungerà alle 19.31. Di tenore differente quanto scritto dall’ASP di Cosenza, dove si parla di “paziente non cosciente” già alle 18.48.
Il signor Antonio non aveva malattie, anzi – pur assumendo farmaci – era un uomo che si definirebbe, almeno in apparenza, in salute. “Lui era quello che a 72 anni riusciva ancora a rincorrere un mezzo”, racconta la figlia senza riuscire a celare l’emozione. Quel pomeriggio tutto lascia pensare che può farcela: l’ambulanza del PET di Cetraro è fortunatamente nei paraggi e arriva sul posto nel giro di 7 minuti. Ma da lì a poco iniziano una serie di eventi concatenati che porteranno nel giro di diverse ore al decesso. Tutto inizia da un tracciato diagnostico ECG teletrasmesso dal 118 ma mai arrivato all’ASP di Cosenza. “Problemi di linea dati”, si legge nella relazione del Direttore della centrale operativa dei soccorsi.
In centrale iniziano a piovere chiamate dai famigliari di Antonio e dal medico che ha fatto la prima diagnosi, che per giunta poi si rivelerà errata. Si tenta di capire che fine abbia fatto l’ECG, ma dall’altro capo del telefono – documentano gli audio – si succedono stranianti attese con tanto di registrazioni della “Primavera” di Vivaldi e infermieri flemmatici e in alcuni casi sgarbati, come se in quelle drammatiche ore non si decidesse della vita e della morte di una persona. “Quello che mi fa ancora male – racconta Valentina, una delle due figlie del signor Antonio – è la mancanza di tatto e di umanità da parte di alcuni che hanno dovuto subire mio padre e la mia famiglia”.
Ascoltando le registrazioni audio si sente infatti a un “Che vuoi?”, leggendo i resoconti si apprende che il povero Antonio nelle quasi otto ore angoscianti che sono intercorse tra il malore e la morte, avvenuta all’1.30 di notte, è stato maltrattato dall’infermiere della PET di Cetraro che provvedeva al posizionamento dell’agocannula per la somministrazione di un farmaco e trasportato fuori di casa seminudo in sedia a rotelle per essere imbarcato in una delle ambulanze che ha visto quel giorno. “E’ stata mia mamma a mettergli un plaid addosso”, ricorda la figlia amareggiata e ancora addolorata per quell’immagine del padre. Anche l’istantanea di un autista del 118 fermo e “occupato a fumarsi tranquillamente una sigaretta” mentre il papà aspetta di essere trasportato in un altro presidio sanitario è un qualcosa che non dimenticherà facilmente.
Sballottato da una parte all’altra in forza di convinzioni e diagnosi che poi si riveleranno errate, Antonio riesce a raggiungere il reparto di Chirurgia dell’Ospedale Annunziata di Cosenza solo alle 22.37, quasi cinque ore dopo il malore. Alle 23.10, si tenta di intervenire per l’“aneurisma soprarenale dell’aorta addominale di 10 centimetri” finalmente diagnosticato. All’1.30 di notte subentra il decesso, che forse poteva essere evitato. All’arrivo dei soccorsi – documenta un verbale del 118 – A. è infatti in grado di tenere gli occhi aperti, risponde agli stimoli esterni, è in grado di interloquire, non presenta asimmetrie facciali, disartrie o afasie e non ha emiparesi o ipostenie agli arti. Ma dalla richiesta di soccorso all’arrivo in Chirurgia in codice rosso – complici le diagnosi errate, la mancanza di posti letto e i veti posti al ricovero di cui riferisce la famiglia – trascorrono quasi cinque lunghe ore che saranno, purtroppo, tra le ultime di Antonio. Altre le passerà sotto i ferri, prima che subentri il decesso.
Oggi, nove mesi dopo la scomparsa del loro congiunto, per i familiari è stato il Natale più triste. C’è poca voglia di festeggiare ma non si perde la speranza, perché c’è una battaglia da combattere. Quella per far sì che la morte – per quanto dolorosa e ingiusta – di un marito e di un padre non sia stata vana. “Credo fortemente – scrive a Rec News Valentina, una delle due figlie – che portare all’attenzione della opinione pubblica questi episodi non sia solo un dovere civico ma sia importante per far risvegliare sempre più le coscienze di coloro che devono decidere, nella speranza che le cose cambino“. Parole che vengono dalla Calabria buona, quella che non si arrende alle ingiustizie, non si nasconde e lotta per un futuro in cui non si debba morire per le attese infinite, per la mancanza di posti letto, per le disattenzioni croniche e per le diagnosi errate. Tutte cose che il povero A. ha dovuto subire e che ancora oggi provocano “rabbia e tristezza” nei familiari.
Un futuro dove la vita di un paziente venga considerata preziosa, dove l’assistenza di qualità e la solidarietà prendano il posto delle negligenze e del cinismo che paradossalmente spesso si registra in molti operatori sanitari, cioè in chi è preposto al soccorso e alla cura delle persone. Un caso di malasanità – l’ennesimo in una Regione vittima di tagli selvaggi alla Sanità – che è giunto anche al Ministero della Salute con protocollo 7374-31/03/2022, che per ora si è perso nel turnover politico e nelle richieste di relazioni inoltrate alla Regione Calabria.