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“Si stanno passando tutti i limiti con l’informazione gay-friendly”. A dirlo, rompendo il silenzio sull’argomento, è stato il 13 febbraio il portavoce del Primo Ministro della Repubblica Cecena Ramzan Kadyrov, Alvi Karimov. “Stanno seduti – ha detto a Ria Novosti –negli uffici a Ginevra, Washington e in altre città. Si citano l’un l’altro, ma non hanno né un dato oggettivo né un fatto attendibile”. Il riferimento è alle “purghe” che avrebbero colpito alcuni omosessuali in Cecenia. A scriverne per la prima volta era stato il primo aprile del 2017 il giornale anti-governativo Novaya Gazeta, che aveva parlato di “un centinaio di uomini detenuti e torturati” e di “tre morti”. A parlare di “mostruose torture” è stato a stretto giro Igor Kochetkov, il capo della comunità Lgbt. La stessa che fornisce dati considerati “verificati” ad Amnesty International.

I “dati” di Amnesty International. Ma su cosa si basano i “dati” forniti da Amnesty international? Su due filoni principali. Il primo: quanto diramato dalla Rete lgbti Russia. Lo scrive la stessa Amnesty in una breve nota del 14 gennaio 2019. Una scelta tutt’altro che imparziale: un po’ come chiedere a una multinazionale che produce vaccini se i vaccini fanno male.

Amnesty è l’organizzazione che, per sua stessa ammissione, ha ricevuto donazioni dal manipolatore mediatico George Soros, il magnate di Open Society che si è occupato di finanziare campagne come quella pro-aborto in Irlanda. Fornirebbe, stando a The Irish Times, il “2,5 per cento del totale dei fondi dell’organizzazione” che, proprio per questo, non gode di tutta questa imparzialità. Amnesty nel 2017 si è rifiutata di restituire una sua donazione di 137mila dollari, perché si riteneva “chiamata a rispettare una legge che viola i diritti umani”.

L’organizzazione riporta che “dal dicembre 2018 almeno due persone sarebbero state torturate a morte in Cecenia perché ritenute gay o lesbiche”. AI propone come “fonte attendibile” (ma di certo non imparziale) la Rete Lgbti, che parla dell’arresto di “40 persone nella città di Argun” e di un “edificio governativo” in cui gli omosessuali sarebbero stati “sottoposti a maltrattamenti e torture. Le autorità – riferisce l’associazione pro-gay – avrebbero poi distrutto i passaporti per impedire loro di lasciare il paese”. Ammissioni su cui la stessa Amnesty sente di dover andare con i piedi di piombo: “due persone sarebbero state – scrive senza fornirne ulteriori dettagli – torturate a morte”.

Il rapporto dell’Osce. Un secondo filone di certo più consistente è quello del rapporto del 28 dicembre 2018 dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e per la cooperazione europea) sulla presunta violazione di diritti umanitari stilato da Wolfgang Benedek. Diciannove pagine su 38 sono dedicate a tematiche lgbt. Dopo una serie di “raccomandazioni” alla Federazione russa e alla Cecenia (ma né l’una né l’altra rientrano nella sfera di influenza dell’Europa), Benedeck illustra il metodo utilizzato per stilare il documento. Ha, dice, “ricevuto una grande quantità di materiale attraverso la casella di posta ODIHR” aperta per la sua missione, poi ha “programmato una visita” che ha “rifiutato non appena ha compreso che sarebbe stata supervisionata dalla Federazione Russa”. Si è, quindi, limitato ad incontrare rappresentanti russi e “in particolare la rete Lgbti russa” per ricevere “materiali pertinenti”, organizzazioni per i diritti umani della Federazione Russa come il Russian Lgbt Network or Committee against Torture o rappresentanti Come Elena Milashina di Novaya Gazeta, cioè gli stessi su cui si basa la nota di Amnesty. Benedek parla di “torture elettriche sulle dita operate da esponenti delle forze dell’ordine”.

Il caso di Khizir Ezhiev. Finalmente Benedeck cita, dopo tredici pagine di rapporto, un caso concreto, sempre tuttavia affidandosi al condizionale. E’ quello di Khizir Ezhiev, Senior economics lecturer presso la Grozny State Oil Technical University, che “sarebbe stato rapito, torturato e ucciso, dopo aver partecipato a gruppo sui social media, che era critico verso il leader della Repubblica, Il Signor Kadyrov”. Ezhiev, in realtà, con le cosiddette purghe del 2017 e i casi del 2018 denunciati da Osce ed Amnesty, non c’entra nulla, non foss’altro che il corpo, stando a quanto rilevato dall’ispettore della Objective che se n’è occupato, Kheda Saratova, è stato ritrovato il 31 dicembre 2015. Secondo Kaukasian Knot, il docente sarebbe stato rapito il 19 dicembre del 2015 e informazioni in merito sarebbero state diffuse tramite i social nel tentativo di ritrovarlo. Il corpo è stato ritrovato nei pressi del bosco di Roshni-Chu. Le autorità locali hanno aperto un’istruttoria per indagare e hanno ipotizzato la “caduta accidentale da un precipizio”.

Il caso di Khusein Betelgeriev. Un altro caso sottolineato da Benedeck è quello di Betelgeriev, ex membro dell’Università Statale Cecena, su cui il professore tuttavia non scrive di più. Il docente sparisce la sera del 31 marzo e la moglie, Karima Betelgerieva, ne denuncia la scomparsa, affermando che l’uomo sarebbe stato “preso da due uomini non identificati in uniformi nere” nei pressi del villaggio di Kalinin, a Grozny. L’11 aprile del 2016, Betelgeriev viene ritrovato e il rientro è confermato dalla ricercatrice del Gruppo di Crisi Internazionale Varvara Pakhomenko e da Ekaterina Sokiryanskaya, direttrice del progetto per il Comitato investigativo del Caucaso. “Khusein Betelgeriev – scriverà quest’ultima – è ancora vivo, anche se è stato duramente picchiato. Per il presente è una buona notizia”.

La relazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. E’ poi il mediatore inviato a fornire rapporto della relazione del CPT a dare l’unico riscontro disponibile a seguito di un’ispezione personale in Cecenia (la stessa che Benedeck dice di aver voluto rifiutare per quello che considera il parere fazioso della Federazione Russa). “Il Mediatore – lo scrive lo stesso professore che firma il rapporto Osce – ha asserito che la Commissione non ha trovato alcuna conferma di esecuzioni, punizioni extragiudiziali o torture. Relazioni che parlano di questo – è quanto ha affermato – sono fuorvianti, e non dovrebbero essere considerate riflettenti del parere espresso dal CPT nel corso della visita”.

Maxim Lapunov e l’unica denuncia alle autorità russe. Sempre attenendosi al rapporto dell’Osce, l’unico tuttavia ad aver sporto una denuncia verificabile nel settembre del 2017 è Maxim Lapunov, un “russo etnico” sparito il 15 marzo 2017 “mentre vendeva un palloncino. È stato tenuto – scrive Benedeck – per 12 giorni nella cantina di una stazione di polizia, dove è stato picchiato e torturato. Potrebbe aver assistito ad altri sottoposti allo stesso trattamento e gli è stato detto che sarebbe stato ucciso”. E’ la versione dell’Osce, ma ancora una volta non trova riscontro nell’indagine del Comitato Investigativo del Caucaso. Lapunov, tuttavia, esce dalla stazione di polizia sulle sue gambe. L’organismo, su input della Federazione Russa, avvia quelli che Benedeck chiama “pre-indagini” e “pre-controlli”, che però la Rete lgbti russa definisce “lacunosi” perché non sarebbe stato individuato lo scantinato delle affermazioni di Lapunov. Viene, a questo punto, rifiutata la richiesta di protezione internazionale e la decisione viene ribadita dalla Corte Regionale di Stavropol.

L’audizione del Comitato per le Nazioni Unite. Un’altra audizione tenuta in un’altro organismo (per giunta super-partes), asserisce poi, è sempre lo stesso rappresentante Osce ad ammetterlo, che “non è stata stabilita alcuna prova che confermi la detenzione illegale e la reclusione del Signor Lapunov”. Il caso si chiude, salvo essere riaperto per le affermazioni di una tale signora Moskalkova. Per assurdo, a dargli forza è proprio il parere che non sembra così disinteressato di Benedeck dell’Osce: “Posso confermare – scrive il professore – la credibilità del signor Lapunov dopo averlo interrogato personalmente e perché la sua storia è quasi identica a quella delle altre vittime”.

“I gay hanno avuto soldi per portare disordini”. Il 25 gennaio 2018, il Primo ministro della Repubblica Cecena è intervenuto sull’argomento in un’intervista a firma di Mikhail Youzhny di Komsomolskaya Pravda. “Noi abbiamo – ha detto – prove convincenti che i gay di altre nazionalità hanno preso soldi per radicarsi in Cecenia, poi hanno fatto le dichiarazioni rilevanti, e in seguito hanno ricevuto un rifugio all’estero. Ho le prove: video, file audio, anche messaggi vocali”. Youzhny definisce quello che viene definito “scandalo gay” come “un prodotto del network di informazione SMI (СМИ)”.

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Decesso Giuliano, l’ASP di Vibo nega le telefonate al 118. I legali della famiglia presentano le prove

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Decesso Giuliano, l'ASP di Vibo nega le telefonate al 118, ma i legali presentano le prove | Rec News dir. Zaira Bartucca

Ci siamo già occupati del caso di Giuseppe Giuliano, l’imprenditore del Vibonese deceduto lo scorso 14 settembre presso l’ospedale Jazzolino (qui la vicenda completa). Dopo la denuncia sporta dalla famiglia presso i Carabinieri di Spilinga per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali” e dopo la diffusione mediatica dell’accaduto, l’ASP di Vibo Valentia – nella persona del commissario Antonio Battistini – ha inteso fornire la sua versione dell’accaduto, affermando che i medici in servizio al Pronto soccorso non solo avrebbero “operato nel rispetto delle buone pratiche cliniche” ma che, addirittura, la famiglia Giuliano non avrebbe mai allertato il 118.

Un’accusa che ora viene prontamente smentita dallo Studio Legale Vigna che, con la nota difensiva di ben 16 pagine pervenuta alla redazione di Rec News, prova dati alla mano – contrariamente a quanto rilanciato da una testata – che le telefonate al pronto soccorso sono state ben tre. “E’ opportuno precisare – scrive l’avvocato Davide Vigna, patrocinante in Cassazione – che sin dalle precedenti note del 19 e del 23 settembre 2023 era stata richiesta dallo scrivente nell’interesse della persona offesa l’acquisizione, presso il SUEM 118 di Vibo Valentia, delle registrazioni delle telefonate effettuate dai familiari del signor Giuliano Giuseppe nella data del 14 settembre 2023 e dei registri di operatività delle autoambulanze, al fine di scrutinare l’effettiva disponibilità delle stesse negli orari in cui era stato richiesto il soccorso e le modalità delle interlocuzioni avute dall’operatore con i familiari”.

Dall’analisi degli elenchi Vodafone è dunque emerso che le circostanze riportate dal commissario dell’Asp di Vibo Antonio Battistini sono errate, almeno per quanto concerne la dichiarata assenza di telefonate al 118 da parte della famiglia Giuliano. Scandagliandoli è stato infatti possibile appurare che il 14 settembre dal telefono cellulare di Tonycristian Giuliano, uno dei figli del signor Giuseppe, sono partite ben tre chiamate. La prima, delle 13.19, è durata 3 minuti e 40 secondi. La seconda, delle 13.31, 2 minuti e 37. Nella terza, delle 15.09, la famiglia comunicava al 118, scrive l’avvocato Vigna, “che il paziente era già stato recato presso il Pronto soccorso, e che quindi non era più necessario l’arrivo dell’ambulanza”.

Giuseppe Giuliano era davvero così grave all’arrivo all’ospedale Jazzolino?

I legali della famiglia Giuliano smentiscono inoltre anche un’altra circostanza sostenuta dal commissario dell’Asp Antonio Battistini, e cioè quella che riguarda la presunta gravità di Giuseppe Giuliano all’arrivo all’ospedale di Vibo Valentia. Sempre dall’analisi degli elenchi Vodafone è infatti emerso che Giuseppe Giuliano è riuscito a fare due telefonate il pomeriggio in cui è stato posizionato dal personale sanitario su una barella e poi lasciato – lamenta la famiglia – solo a sé stesso senza flebo né strumenti per la rilevazione dei parametri vitali. La prima, delle 17.36, dura 23 secondi ed è al figlio Tonycristian. La seconda, di appena un secondo, alla moglie Anna Maria. Qualche tempo dopo, alle 19.15, stando a quanto ricostruito dalla famiglia e dai legali, il personale sanitario provvedeva a comunicare, in maniera stringata e senza aggiungere motivazioni di sorta, il decesso dell’uomo. Una morte del tutto inaspettata, che per la famiglia è stata come un fulmine al ciel sereno.

“Sia consentito di chiedersi, retoricamente – scrivono i legali della famiglia Giulianocome sia possibile che un paziente giunto al Pronto soccorso in condizioni di gravità – e che, si dovrebbe ritenere sulla scorta di quanto affermato dal Generale Battistini, sarebbe stato immediatamente sottoposto alle cure ed alle terapie del caso – abbia potuto effettuare dall’interno, durante il ricovero e le conseguenti cure e terapie, telefonate ai propri familiari dal cellulare personale“. I legali della famiglia Giuliano ora chiedono alla Procura di Vibo Valentia e alla dottoressa Filomena Aliberti, che cura le indagini, di acquisire i tabulati telefonici. Già inoltrata la richiesta di acquisire le immagini interne del Pronto soccorso, che documenterebbero lo stato di abbandono di Giuseppe Giuliano.

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Ennesimo caso di malasanità all’ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure»

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Ennesimo caso di malasanità all'ospedale di Vibo Valentia. Giuseppe Giuliano morto «solo e senza cure» | Rec News dir. Zaira Bartucca

Il diritto al soccorso tempestivo e alle cure in Calabria non è poi così scontato. Essere ricoverati in questa regione, come abbiamo avuto modo di documentare, è spesso un terno al lotto. Vale un po’ per tutte le province, ma per Vibo Valentia e per l’ospedale Jazzolino – ormai al centro di innumerevoli fatti di cronaca, tutti rigorosamente senza colpevoli – vale di più. Lo sa bene la famiglia Giuliano, che da giorni si trova immersa nel dolore per la perdita prematura del loro caro.

Stando a quanto hanno riferito i familiari a Rec News, Giuseppe Giuliano – imprenditore della zona – il 14 settembre dopo un episodio di febbre e brividi inizia ad avere una gamba gonfia, arrossata e dolorante. La famiglia intorno alle 14 chiama il Pronto Soccorso dell’ospedale Jazzolino, ma viene a sapere che i tempi di attesa «sarebbero stati addirittura di tre ore».

Giuseppe viene quindi accompagnato al Pronto soccorso da uno dei figli e dalla moglie. Sta male ma, puntualizzano i familiari, riesce «a salire in macchina e a fare le scale di casa da solo, con le sue gambe». Nulla, insomma, che lasciasse presagire che da lì alle ore che sono seguite sarebbe accaduto l’irreparabile. All’arrivo al pronto soccorso, intorno alle 15, Giuseppe viene preso subito in carico, ma da lì a poco, suo malgrado, inizia un calvario fatto di abbandono e mancanza di interventi che porterà – nel pomeriggio – al decesso.

Il tempo perso per il tampone, alla ricerca del covid che non c’è

Giuseppe Giuliano, dunque, si reca all’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia principalmente perché presenta una gamba gonfia, arrossata e dolorante. Giunto al nosocomio, però, il tempo destinato al primo soccorso di emergenza si perde tra il tampone e la ricerca del virus perduto, il covid: «Giuseppe – puntualizza la moglie – aveva una gamba molto gonfia e arrossata, dunque era andato in pronto soccorso per quei motivi». Dopo la sistemazione alla buona all’interno di una barella, inoltre, la famiglia viene allontanata «per i protocolli covid che non sono più in vigore». E’ l’ultima volta che la moglie Anna Maria e i figli Fabrizio, Stefano, TonyCristian e Dario vedono Giuseppe da vivo, anche se sono ancora convinti che al di là delle porte chiuse qualcuno si stia attivando per prestare tutte le cure necessarie.

Giuseppe lasciato morire da solo, al freddo e senza cure

Sono dunque ore drammatiche scandite da mancate risposte quelle che la famiglia Giuliano si trova a vivere dopo l’accettazione in pronto soccorso. Alle 17.15 un’infermiera riferisce che Giuseppe “è in attesa della TAC”, poco più tardi si susseguono le telefonate del figlio TonyCristian e della moglie Anna Maria. Giuseppe dice di avere freddo, racconta la famiglia, e solo la gentilezza di una ragazza che era lì vicino per un parente fa sì che si possa coprire. Tra gli infermieri, a quanto pare, non ci aveva pensato nessuno. Non sono ancora le 18 quando i familiari non riescono più a raggiungere telefonicamente Giuseppe. Verso le 19.15 una dottoressa e un’operatrice sanitaria si avvicinano ai parenti per comunicare la situazione. La famiglia Giuliano si ritrova così a a dover gestire un secco e improvviso «è morto». Lo hanno detto così, raccontano i familiari, «senza dare alcuna spiegazione o motivazione riguardo le cause della morte e rientrando immediatamente all’interno del Pronto Soccorso».

«Non aveva flebo né macchinari per il monitoraggio dei parametri vitali»

Giuseppe sarebbe rimasto tutto il tempo in barella senza essere sottoposto ad accertamenti. «Abbiamo notato – è quanto fa sapere la famiglia – che non aveva alcuna flebo né alcun altro macchinario per il monitoraggio dei parametri vitali, ad esempio per monitorare il battito cardiaco o la saturazione». Un abbandono totale che ha convinto la famiglia Giuliano ad allertare subito le Forze dell’Ordine. «I carabinieri sono giunti al pronto soccorso dopo circa mezz’ora – racconta la famiglia – ma si sono e chiusi con il medico Paolo Leombroni in un ufficio». Oltre il danno, poi, la beffa: «In serata mi è stato pure detto che la TAC era rotta» racconta Fabrizio, uno dei figli di Giuseppe Giuliano.

La denuncia sporta presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga

Nel dolore della perdita improvvisa subìta e nella consapevolezza di aver assistito a un caso di malasanità, la famiglia Giuliano il 15 settembre presenta una denuncia presso la Stazione dei Carabinieri di Spilinga per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali”. «Ora che abbiamo fatto partire le denunce – racconta uno dei figli di Giuseppe, Fabrizio – molte persone che spesso non trovano la forza di sporgere denuncia o che vengono avvicinate e scoraggiate, mi hanno contattato riportandomi le situazioni al limite dell’umanità che hanno subito all’Ospedale di Vibo Valentia. Sappiamo per chi facciamo tutto questo: lo facciamo per lui, per noi, per i tanti che non hanno la forza e incassano con rassegnazione e frustrazione. Lo facciamo perché non riaccadano più episodi di sciatteria e di menefreghismo sanitario».

La lettera al presidente della Regione Occhiuto: “In Calabria la vita umana sacrificata sull’altare della negligenza e della sciatteria sanitaria”

Coraggio e motivazione hanno spinto Fabrizio a rivolgersi direttamente al governatore Roberto Occhiuto tramite una lettera aperta: “La tragedia della sanità in Calabria con Vibo Valentia a portare la bandiera – scrive il giovane – continua a essere un’oscura e incivile pagina della storia della nostra Regione. Al pari delle altre regioni d’Italia, il diritto ad essere curati dovrebbe essere garantito, purtroppo tutto ciò a Vibo Valentia non è scontato. Ci troviamo di fronte a una realtà in cui la vita umana sembra essere spesso ignorata. È un sistema marcio, corrotto dall’indifferenza, dall’inerzia e dal malaffare, dove il valore di una vita umana viene spesso sacrificato sull’altare della negligenza, del menefreghismo e della completa sciatteria sanitaria”.

“Sì, proprio così – prosegue Fabrizio Giuliano – “sciatteria sanitaria” perché ogni qual volta si ha bisogno di curarsi si ha l’impressione di percepire un mix di adrenalina e ansia al pari di una puntata alla roulette russa. In Calabria, la morte sembra essere diventata una statistica, un numero tra i tanti. Le persone soffrono e muoiono senza ricevere le cure di cui hanno bisogno, mentre chi dovrebbe proteggerle e curarle sembra voltare lo sguardo altrove. Il dolore delle famiglie, costrette a vedere i propri cari andarsene prematuramente, è amplificato dall’impotenza di fronte a un sistema che non funziona, un sistema appunto marcio da dentro”.

“Questo – continua Fabrizio Giulianoè un appello alla coscienza di tutti noi, ma soprattutto alla vostra, che siete i nostri rappresentanti, affinché si metta fine a questa indifferenza verso la sofferenza umana. Oggi a morire inerme per mano di un’equipe di lestofanti e negligenti è stato il mio caro papà, ma le prometto che non ci arrenderemo di fronte a niente e nessuno pur di arrivare a far chiarezza sulle responsabilità di ognuno. Ogni vita conta, e nessuno dovrebbe morire come se niente fosse, a causa di mercenari sanitari perché i medici, quelli animati da vocazione alla missione, sono ben altro”. La famiglia di Giuseppe Giuliano, vittima di un caso di malasanità, è attiva sui social con l’hashtag #GiustiziaPerGiuliano.

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Viaggio nell’inferno della criminalità giovanile

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Viaggio nell'inferno della criminalità minorile | Rec News dir. Zaira Bartucca

“La mia maggiore aspettativa è sposare un camorrista”. “Eravamo tutti insieme. Un mio amico portò una borsa piena di armi e tutti prendemmo una pistola”. Io vedevo loro sparare e così ho iniziato anch’io”. E’ un viaggio denso e a tratti agghiacciante quello che Giacomo Di Gennaro – ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale – e Maria Luisa Iavarone – ordinario di Pedagogia – compiono nel saggio “Ragazzi che sparano”, edito dalla casa editrice Franco Angeli.

Oltre duecento pagine in cui si scandaglia – dati alla mano – il tema della devianza giovanile grave, con le sue motivazioni, gli inneschi, la subcultura e tutto l’humus che l’ha fatta e la fa germogliare. Una ricerca, avvertono gli autori, che non è fine a sé stessa, ma che rappresenta il punto di partenza per trovare soluzioni al problema e per interloquire con i soggetti coinvolti: dalle Forze dell’Ordine alla Magistratura, da chi è deputato all’educazione e alla rieducazione a chi ha potere decisionale. Perché l’approccio consolidato, discontinuo e soppressivo, continua a mostrare limiti e debolezze, mentre a dover essere modificati – dicono i ricercatori – sono tutti quei fattori che portano i giovani a scegliere di essere criminali per poter, a conti fatti, permettere di avere uno status. Fosse anche quello di malvivente.

Ma perché si diventa criminali e perché in alcune zone e così facile che si inizi così presto? Iavarone e Di Gennaro rispondono alla domanda evidenziando le costanti dell’agire al di fuori della legalità. Due in particolare, che ricorrono nelle storie degli intervistati dell’IPM di Nisida: la condizione di indigenza e l’evasione scolastica. E’ su questa tabula di azzeramento sociale e intellettivo che le consorterie costruiscono il personaggio tipo utile al perseguimento di comportamenti criminosi che spaziano dai vari traffici all’uso di armi da fuoco, dalle cosiddette “stese” per far sfoggio della propria supremazia sul territorio agli annidamenti nella burocrazia. E’ pur vero che non tutti i poveri e non tutti quelli che non hanno studiato sposano determinati contesti: i due autori spiegano i motivi di questa dicotomia individuando e sondando altri fattori che nel giro di un quarantennio hanno portato al consolidamento della criminalità giovanile e finanche minorile.

Il volume di focalizza sul territorio napoletano raccontato dagli anni ’80 a oggi evidenziando due dati che forse possono stupire: l’ultimo sessennio ha visto un decremento di reati e non è la città partenopea ad avere il primato degli episodi attribuibili alla criminalità radicata tra le fasce di età più giovani, scalzata com’è da Bologna, Milano, Torino e Roma. Colpa del clima omertoso che impedisce di denunciare o merito di alcuni – rari e isolati – pm coraggiosi che distruggono altarini e demoliscono i miti cari ai clan, anche se la Camorra e le altre mafie alla lunga rimangono tutte lì. Perché cambia tutto ma non cambiano le condizioni che permettono al crimine di proliferare, anche se in maniera sempre più endemica, e di trasformarsi diventando quasi invisibile, normale, istituzionalizzato.

Certo, non ci sono bacchette magiche che permettono dall’oggi al domani di resettare tutto. Ma nel Paese che ha 5 milioni di poveri e un milione di minorenni che non hanno possibilità di studiare in maniera adeguata la prevenzione – osservano Di Gennaro e Iavarone – è l’arma che può permettere ai giovani di cambiare idea finché sono ancora in tempo e di capire che perseguire obiettivi leciti e costruirsi da soli, fosse anche con fatica, può permettere di vivere una vita più dignitosa. Lontana, a conti fatti, dai modelli distorti che si decantano in alcune fiction citate nel volume.

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FREE SPEECH

La paghetta per i giornalisti che daranno “priorità alle questioni legate al clima”

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La paghetta per i giornalisti che daranno "priorità alle questioni legate al clima" | Rec News dir. Zaira Bartucca

Dopo i colpi inferti dal governo e dalla riforma Nordio alla Libertà di Espressione, un altro mal costume continua a minacciare l’autonomia di giornalisti e comunicatori. C’è chi tenta di silenziare quelli che fanno il loro lavoro a suon di querele temerarie e di campagne diffamatorie e chi, invece, vorrebbe ridurre i più manipolabili a meri burattini che ripetono a pappagallo gli slogan del politicamente corrotto in fatto di Sanità, di migranti, di Europa, di rapporti sociali. E di clima, ovviamente.

Su quest’ultimo terreno – squisitamente agendista – si concentrano ora le ansie del Centro europeo di Giornalismo, che periodicamente eroga delle paghette, sotto forma di premi, ai giornalisti che “si distinguono” in un determinato settore. Abbiamo già scritto dei finanziamenti da 7500 dollari da parte dello stesso ECJ e della fondazione Bill & Melinda Gates destinati a quei comunicatori che influenzano l’opinione pubblica in tema di Sanità.

Questa volta, invece, il premio – da 2000 euro ed erogato sempre dal Centro europeo di Giornalismo – è per coloro i quali daranno “priorità alla segnalazione di questioni legate al clima” in articoli o reportage pubblicati dal 14 al 17 giugno. Cosa significhi dare priorità non è dato saperlo, ma quel che è certo è che a dare man forte alle narrazioni costruite ci sarà anche Google News, il servizio della Big Tech già multata per propaganda e favoritismi, anche in Italia. In che modo e con quali toni, poi, i giornalisti parleranno e scriveranno di siccità, alluvioni e di “emergenze” climatiche (sapendo che ad attenderli ci sarà una ricompensa), c’è solo da immaginarselo.

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