In ricordo di monsignore Cataldo Naro, a quattordici anni dalla sua controversa morte
di Daniela Giudice
Cataldo Naro nasce a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, il 6 gennaio 1951. Si forma nel Seminario diocesano di Caltanissetta, poi completa gli studi teologici a Napoli, presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Ordinato sacerdote a Caltanissetta nel 1974, si reca poi a Roma per conseguire la licenza e il dottorato in Storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana, discutendo una tesi diretta da Giacomo Martina. Consegue anche il diploma di archivista presso la Scuola di archivistica e paleografia dell’Archivio Segreto Vaticano.
Le sue energie intellettuali si concentrano «nell’analisi dei mali della società, e in particolare della Chiesa, nel Meridione, senza risparmiarsi neanche sul piano dell’operatività organizzativa: già nel 1983 fu tra i fondatori del Centro Studi “Cammarata” di San Cataldo, poi membro del consiglio d’amministrazione di “Avvenire” e del comitato scientifico delle Settimane Sociali», come scriverà il filosofo e pubblicista palermitano Agusto Cavadi (A. Cavadi, Don Cataldo Naro[1951-2006]: un vescovo anomalo, in «Adista Segni Nuovi» 34 [8/10/2016]).
Organizza convegni e seminari sui “martiri di giustizia”, come il giudice Rosario Livatino e don Pino Puglisi e pubblica vari libri e saggi sull’intricata storia dei rapporti fra esponenti del mondo cattolico e boss mafiosi. Ordinato vescovo il 14 dicembre 2002, in soli quattro anni di episcopato fonda a Monreale il Centro Studi “Intreccialagli”, è presidente della Commissione episcopale nazionale per la cultura e le comunicazioni sociali e vicepresidente del Comitato preparatorio del IV Convegno ecclesiale di Verona.
Nel 2005 avvia un progetto pastorale nel territorio della sua diocesi su “Santità e legalità”, per un impegno cristiano di resistenza alla mafia, in collaborazione con il consorzio “Sviluppo e legalità”, che raccoglie alcuni comuni dell’Alto Belice Corleonese, e con l’Osservatorio per lo sviluppo e la legalità “Giuseppe La Franca”. Non decide di restare «dentro i recinti ecclesiali», come osserva Cavadi, ma a partire dalla sua ordinazione episcopale, avvenuta alla fine del 2002, fino alla sua morte prematura, il 29 settembre 2006, compie la visita pastorale, la riorganizzazione delle parrocchie, promuove una pastorale di formazione per laici e presbiteri, istituisce corsi per catechisti, lettori e accoliti, e conferisce tali ministeri a parecchi laici; valorizza la figura del diacono permanente e si interessa per riportare la sede del Seminario in città; il Seminario Arcivescovile di Monreale porta oggi il suo nome.
Diventa rilevante il suo impegno contro la mafia (Monreale è l’arcidiocesi a più alta densità mafiosa), mafia da lui stesso definita «struttura di peccato», espressione già usata da papa Giovanni Paolo II per la prima volta nel 1979, nell’omelia tenuta nel santuario di Nostra Signora dell’Immacolata concezione di Zapopán (Messico). Come già rilevante e significativa era divenuta nel tempo la sua indagine storica sul rapporto fra Chiesa e mafia.In un’intervista rilasciata nel 2003 (A. Valle, La lezione di donPino, in «Jesus» 9 [9/2003] [web]), Mons. Naro afferma, a proposito del martirio di padre Pino Puglisi: «Il martirio evidenzia, in qualche modo, una carenza della Chiesa, un suo limite sul piano della testimonianza cristiana; è, di fatto, una denuncia di ciò che non c’è e di cui ci sarebbe bisogno. È una sorta di appello da parte di Dio che sembra dire: “C’è qualcosa in questa Chiesa che non è secondo la testimonianza della mia Parola”. E, dall’altro lato, però, rende anche evidente quello che già esiste».
Conclude poi, sull’impegno contro la mafia sostenuto dalla Chiesa siciliana: «Si deve partire da lontano. All’inizio, subito dopo l’unità d’Italia, c’è stato un silenzio totale della Chiesa su questo tema. […] Gli archivi ecclesiastici dimostrano che la Chiesa del tempo sapeva cos’era la mafia e anche chi erano i suoi capi. Mancava però una valutazione del fenomeno, un suo giudizio alla luce del Vangelo». E’ così che la lotta concreta che Cataldo Naro opporrà alla mafia non sarà fatta solo di proclami eproteste, ma avviando invece un’intensa attività pastorale e culturale, alla luce del Vangelo.
Nel 2010, quattro anni dopo la morte improvvisa dell’arcivescovo, viene pubblicato un volume, a cura del fratello don Massimo Naro, dal titolo: «Sorpreso dal Signore. Linee spirituali emergenti dalla vicenda e dagli scritti di Cataldo Naro», inserito nella collana editoriale degli Studi del Centro “Arcangelo Cammarata” ed edito da Sciascia. Il volume raccoglie vari scritti, fra cui gli atti di un convegno avvenuto a San Cataldo nel 2009, in occasione dell’anniversario della scomparsa dell’arcivescovo.
Fra i molti contributi, c’è un saggio particolarmente interessante di Francesco Mercadante – professore emerito di Filosofia del diritto dell’Università Sapienza di Roma – contenente al suo interno documenti inediti. Attraverso una lettura critica degli avvenimenti che hanno riguardato la vita e l’episcopato di mons. Naro, tinge la vicenda di giallo e delinea un quadro che man mano si fa sempre più oscuro ed ostile, fatto di avvertimenti, minacce, lettere anonime, carteggi con il Vaticano, congiure, presagi. Il punto di partenza individuato da Mercadante, è l’aggressione subìta da mons. Naro a Cinisi, il 9 giugno 2005, al termine di una cerimonia per il conferimento delle cresime, sul sagrato della chiesa di Santa Fara.
Viene intimato all’arcivescovo, da parte di un gruppo di fedeli, di annullare il trasferimento del parroco Nino La Versa. «Nel breve tratto di strada, percorso da mons. Naro in compagnia dell’autista per farsi largo fino alla macchina, gli aggressori passano alle vie di fatto, colpendo il vescovo con spinte, pugni, calci, strappi, strattoni, ripetute violenze. Impediscono poi alla vettura, dove nel frattempo il vescovo ha trovato rifugio, di mettersi in marcia, schierando persino i bambini di traverso sulla strada. Le forze dell’ordine latitano, salvo recare soccorso disperdendo l’ultimo tafferuglio col fare di comuni passanti. Niente prevenzione, niente vigilanza, niente intervento tempestivo, malgrado le insistenti chiamate».
Continua Mercadante: «Si tratta di “buoni cattolici”, non di estremisti o di teppisti. […] Domando familiarmente a mons. Naro [tra i due “correva un’antica e consolidata amicizia”, come esordisce all’inizio Mercadante] se negli annali ecclesiastici ricorra con frequenza in terre di mafia la bastonatura di un vescovo. “Caso più unico che raro”, mi risponde. A chi converrebbe? Non certo alla mafia. Dove in Sicilia un vescovo fosse venuto in uggia alla gente, non lo si aggredisce per la strada, sta ai “buoni cattolici” darsi da fare per le vie gerarchiche: e una soluzione si troverà. “Ed allora perché – si domanda mons. Naro appoggiandosi la mano sul petto – tocca proprio a me il pubblico gesto intimidatorio, al limite del ludibrio, in eccezione alla regola, comunemente praticata anche in ambiente mafioso?” .Si accende a Cinisi, infatti, un lume nella notte, che manda messaggi cifrati.
La chiave per intenderli si troverà ben nascosta tra le carte di un dossier sulla morte di mons. Naro. Solo allora sarà abbastanza semplice, con quella chiave in mano, rintracciare la via tortuosa, in parte sotterranea, che collega l’incidente alla morte per l’andata e il ritorno. Ed è dunque sul sagrato di Santa Fara che bisogna scavare». Continua quindi, l’ex docente di Filosofia del diritto, sottolineando «la mancanza di un contenitore legale […] O tutte le notizie del genere sono finite in un buco nero? Si conoscono i nomi degli aggressori, sono segnati da qualche parte? […] […] Nessuno infatti è stato sentito, nessuna testimonianza raccolta […] come se siano gli stessi fatti, anzi misfatti, a correre spontaneamente verso l’insabbiamento» . Si chiede ancora Mercadante: «Agli atti nessuno risulta responsabile di reati, perché non ci sono atti. Ma non è un reato l’omissione degli atti?». Da parte sua, invece, mons. Naro non corre a costituirsi negli uffici dell’autorità giudiziaria, «non chiede “giustizia legale” a tamburo battente, lascia anzi intenzionalmente languire i suoi diritti di cittadino».
Il 7 novembre 2006 viene spedita da Alcamo una lettera anonima per posta ordinaria diretta a mons. Naro. Scrive Mercadante : «A Cinisi, sulla scena del crimine, si sono viste ombre, marionette, pupi a filo. E ombre si profilano dietro la cortina fumogena di una lettera anonima al vetriolo». Secondo l’autore della lettera diretta all’arcivescovo, ci sarebbe una minoranza di sacerdoti «stanchi di subire soprusi da Lei e dai suoi compari lecchini, ignoranti e…, lasciamo stare». Nella lettera si chiama in causa la mafia: mons. Naro avrebbe permesso a molti preti «della fascia marina-collinare (Partinico) di assumere atteggiamenti imperiosi, da divi di Hollywood». Quindi l’accusa: questo clero collinare sarebbe mafioso, il vescovo sarebbe mafioso: «Probabilmente è Lei che glielo permette in quanto Le fa comodo o, possibilmente, è ignaro di quanto detto»; e vittime della mafia sarebbero invece dei sacerdoti costretti a coprirsi con l’anonimato.
Si chiede Mercadante: «Chi tartassa queste perle di gentiluomini in abito talare? La mafia: ma non un’orda qualsiasi di pregiudicati, bensì un’élite di mafiosi in abito talare. E qui siamo al gioco delle tre carte: mafia il clero collinare, mafia il vescovo in carica, complice per un lato, inetto per l’altro; vittime della mafia una fascia di preti diseredati, che non si ribellano, coprendosi con la maschera dell’anonimato: che è truccatura di mafia». Dopo l’aggressione arriva ora la calunnia, che si trasforma «in arma letale. Naro e mafia infatti stanno agli antipodi». A questa lettera, che andrebbe analizzata «con una perizia d’ufficio», l’ex docente di Filosofia del diritto ne allega poi un’altra: quella che mons. Salvatore Cassisa, predecessore dell’arcivescovo Naro, spedisce al cardinale Re dopo aver ricevuto l’ordine scritto, da parte di Naro in una lettera datata novembre 2003, di troncare tutti i rapporti d’ufficio con la curia, il clero e i comuni fedeli, con i quali Cassisa mantiene ancora rapporti floridissimi.
«Qui a Monreale – scrive Cassisa a Re – Naro non è al posto giusto […] Si cerchi un’altra sede, si provveda dall’alto […] Dietro quella tenda sto nascosto, ma vigile, faccio finta di non sentire e di non vedere, ma il mondo è piccolo. Ed ora sono io, mons. Cassisa, ad escludermi da ogni anche minima corresponsabilità residua, alla luce degli ultimi amari eventi». Come osserva il professore emerito, «l’allusione è alla giornata amara di Cinisi», espressa «con il linguaggio del trionfatore». Ma, continua Mercadante, Cassisa non è un terzo osservatore: «egli è nella mischia, egli è l’antagonista […], cui nessuno può succedere, se non lo abbia prima ucciso». Ora, mons. Cassisa non ha opposto alcuna difficoltà all’arrivo di mons. Naro, ma «s’è fatto riconoscere un titolo a conservare la sua residenza onorifica nel Palazzo arcivescovile, in dipendenza e conseguenza dei suoi affari giudiziari. Quel titolo è come il privilegio di Costantino. E d’altronde il Palazzo è abbastanza grande per poter essere diviso tra il titolare emerito, che sta sopra, e il titolare ordinario, che sta sotto».
In una lettera, inviata a Mercadante, mons. Naro scrive: «[…] Spero comunque che Lei possa fare qualche cosa per aiutarmi; meglio: per aiutare la Chiesa di Monreale […] a me premerebbe che si comprendesse, da parte di chi ha la responsabilità di decidere, quanto danno arreca all’immagine della Chiesa in Sicilia e particolarmente a quella della Chiesa di Monreale, la permanenza dell’arcivescovo emerito mons. Cassisa – contro le norme canoniche – nello stesso palazzo del vescovo ordinario. […] Provo a sintetizzare i tre principali motivi che, secondo me, imporrebbero una decisa azione della Santa Sede per ottenere da mons. Cassisa di lasciare, se non la diocesi, almeno il palazzo arcivescovile». Ed ecco in sintesi i tre motivi, così come li descrive Mercadante: «Primo motivo: vita e miracoli di mons. Cassisa. Ne hanno scritto i cronisti, e se ne sono sentite di tutti i colori. Sul finire di una lunga stagione di grandi opere l’amministrazione della diocesi, monocraticamente gestita da mons. Cassisa, inciampa in inquietanti complicazioni giudiziarie non prive di rilevanza anche sotto il profilo del crimine organizzato. […] Si deve al peso ben calcolato di mediazioni e pressioni varie, organizzate dall’alto, se mons. Cassisa finisce col rimediare una stentata assoluzione. Ma non ne fa tesoro per ritirarsi nell’ombra».
Quindi il secondo motivo: «Naro si fa storico di se stesso, e mette il dito sulla piaga delle ribellioni, renitenze, congiure, schizofrenie, che devastano la sua diocesi, mentre il vescovo emerito, rinfrancato dal buon esito dei processi giudiziari, centellina come una bevanda miracolosa tutti i vantaggi dell’immunità». Ed infatti la gerarchia ecclesiastica non calcherà mai la mano contro di lui: a partire dal 2004 il cardinale Re invia al vescovo emerito una serie di lettere in cui gli chiede di lasciare il palazzo arcivescovile entro una certa data. Cassisa ignora le richieste, Re ritorna a scrivere, la situazione non si sblocca. Il dubbio che affiora è che vi sia un “tacito accordo” tra Cassisa e Re. In una lettera privata diretta a Mercadante, mons. Naro scrive ad un certo punto: «Io temo che il cardinale Re stenti a considerare che nella mia diocesi sono comprese capitali della mafia: Corleone, San Giuseppe Jato, Cinisi, Capaci, […] ecc.».
E lamenta il fatto che di fronte all’aggressione fisica di Cinisi – paese del grande boss Badalamenti e della vittima di mafia Peppino Impastato – non abbia ricevuto la solidarietà manifesta della Santa Sede, né della Conferenza Episcopale Italiana o Siciliana, e neanche del Metropolita card. De Giorgi, che però, in occasione dell’assoluzione definitiva di Cassisa, gli aveva inviato tramite comunicato stampa «un caloroso messaggio di congratulazioni!. Chi mi ha manifestato solidarietà – prosegue Naro – è stata l’anticlericale “Repubblica” di Palermo. Le confesso una certa amarezza. Ma il problema non è la mia amarezza. È l’immagine della Chiesa che simili fatti veicolano».«Il vescovo non ha ancora fatto la fine di Impastato: ma le premesse ci sono», continua Mercadante. «L’aggressione fisica è un punto di partenza, un “avviso di garanzia” in codice». Cassisa, da parte sua, voleva solo un po’ di riguardo. Perché «chi rispetta lui – afferma ancora il professore emerito della Sapienza – sarà rispettato a sua volta da chi è tenuto a obbedire e non obbedisce senza aver ricevuto il relativo ordine dalle capitali: Partinico, Corleone, Capaci ecc. ecc.».
Il terzo ed ultimo motivo della richiesta di Naro al cardinale Re, «è una vera e propria perorazione in difesa della effettività dell’ufficio ministeriale, a partire dalla sede propria e indivisibile dell’ufficio stesso». Non è quindi possibile “fare a metà”, sopra e sotto, all’interno del palazzo vescovile. Il Vaticano, però, continua a resistere e torna indietro con un compromesso. Ma il tavolo dei negoziati, imbandito a Monreale, va deserto. Solo il vescovo emerito Cassisa è possibilista: «Il vescovo ordinario, fuori sede perché in visita pastorale, fa sapere garbatamente che non c’è niente da negoziare. La legge è la Legge». Finalmente arriva il decreto, in data 23 agosto 2006, che impone al vescovo emerito Cassisa di lasciare il palazzo vescovile. E mons. Naro intona mentalmente il Te Deum di ringraziamento. Ma il vescovo ordinario, «dopo la lunga marcia, non metterà piede nella terra promessa», afferma Mercadante. Mons. Cataldo Naro, lasciato solo, muore: di “aneurisma” si legge nel referto medico datato 29 settembre 2006. Ma, conclude l’autore del saggio, è morto «perché poteva o perché doveva morire?» (Aa. Vv., Sorpreso dalSignore. Linee spirituali emergenti dalla vicenda e dagli scritti di Cataldo Naro [a cura di M. Naro], Sciascia Ed., Caltanissetta-Roma 2010, pp. 282-319).
Oggi, malgrado siano trascorsi ormai tanti anni, non si può non ricordare la mancanza di un’iniziativa ufficiale, organizzata dall’arcidiocesi di Monreale, in occasione del primo anniversario della scomparsa del suo arcivescovo; né si possono dimenticare segnali come i funerali del boss Nenè Geraci celebrati, nel 2007, nella Chiesa Madre di Partinico, con relativi disordini; mentre niente è stato mai fatto concretamenteper gettare vera luce sull’intricata vicenda che ha riguardato l’episcopato e la morte, improvvisa e prematura, di mons. Cataldo Naro.
Prima di concludere, vorrei brevemente ricordare la figura di mons. Naro nelle sue molteplici sfaccettature: come storico, come vescovo, come docente, ed infine, ma non meno importante, come persona. La formazione intellettuale di Cataldo Naro è orientata in primo luogo alla ricerca storica. Ricchissima è la sua produzione storiografica e numerose sono le sue pubblicazioni, con una personale bibliografia che annovera circa 25 volumi. Tuttavia il suo maggiore impegno intellettuale si è profuso oltre che in favore del Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”, che opera a San Cataldo (Caltanissetta) sin dal 1983, anche in favore della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia a Palermo, dove ricopre l’incarico di professore stabile, di vicepreside e, per sei anni – dal 1996 al 2002 – di preside. Nel 1991, in Facoltà Teologica di Sicilia, ho l’opportunità di conoscere personalmente Mons. Naro come docente di Storia della Chiesa, nell’arco dei quattro anni previsti dal piano di studio, e in veste di tutor, figura allora voluta e promossa dalla Facoltà per supportare gli studenti: ruolo che egli svolgerà con slancio e umanità.
Per Cataldo Naro «la ricostruzione storica di quanto è accaduto nel passato non solo dà senso alla propria identità ma consente pure un sano “discernimento pastorale delle urgenze del (proprio) tempo e del (proprio) luogo” e garantisce “una presenza […] di vera influenza dei cattolici nella società” (così in un saggio contenuto nel suo volume Sul crinale del mondo moderno, a p. 270); mentre la ricerca storica, che ha una valenza “teologica”, aiuta a scoprire l’azione dello Spirito nella Chiesa, nell’uomo e negli avvenimenti stessi della storia» (F. Lomanto, Il ricordo di mons. Cataldo Naro nel decennale della suascomparsa, in «Ho Theologos» 34 [3/2016] p. 510). Si è saputo collocare «nel solco lungo del ricordo, non ridotto e non riducibile a mero vanto storico, delle grandi e vive testimonianze di sapienza evangelica, di intraprendenza pastorale, di operosità nel segno della carità e di cultura autenticamente rispettosa della dignità umana che, in questa nostra Chiesa [di Monreale], ci hanno lasciato le generazioni cristiane che ci hanno preceduti», coniugando sapientemente il rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II, da lui definito «l’evento più importante della storia della Chiesa nel Novecento», alla continuità della Tradizione, fertile terreno dove queste figure sono cresciute e sono maturate alla fede, nel «ricordo di Dio» e del Vangelo.
Per «ricordo di Dio», Naro intende il ricordo che ognuno di noi ha di Lui «e che alimenta il sentimento della sua presenza nella nostra vita. Ma c’è, prima, un ricordo che Dio ha di noi e che è il suo usarci misericordia, come dice la stessa parola ri-cordare, passare nel cuore. E ancora, come dice il salmo 101, questo ricordo di Dio, che è la nostra salvezza, è per ogni singola persona ma anche per ogni generazione». Così «c’è una volontà salvifica di Dio per ogni generazione». «Tutti», infatti, «Dio vuole salvi. Ma si richiede anche che ogni generazione si ricordi di Dio, corrisponda al ricordo che Dio ha di essa. C’è un appuntamento che Dio fissa per ogni generazione» (tratto dal discorso di Cataldo Naro nel duomo di Monreale il 14 dicembre 2002; già pubblicato in «Bollettino Ecclesiastico» dell’Arcidiocesi di Monreale 82 [luglio-dicembre 2002] pp. 33-38).
Traspare qui l’amore che l’arcivescovo Naro serba per “tutti e ciascuno”, espressione ricorrente nei suoi scritti, ed il suo autentico amore per la Chiesa, che rinnovandosi cresce nel tempo e si sviluppa, «rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino», come avrebbe affermato papa Benedetto XVI nel suo «Discorso alla Curia Romana» del 22 dicembre 2005, pochi anni dopo. Autentico amore alla Chiesa, che, per Cataldo Naro, significa anche «generosa capacità di perdono e di superamento di ogni risentimento per guardare con speranza al futuro che il Signore prepara per noi […]. Tutti devono poter scorgere la bellezza della Chiesa. Ed è solo il nostro peccato ad oscurarla. È la nostra mancata testimonianza di unità e di concordia ad impedire il cammino degli uomini verso Cristo» (C. Naro, Amiamo la nostraChiesa. Lettera pastorale ai fedeli della Chiesa di Monreale, Arcidiocesi di Monreale, Monreale 2005, pp. 46-47).
Così, nella sua ricerca storica, evidenzia come l’influenza dei grandi Santi, vissuti nelle varie epoche, divenga determinante, contribuendo anche in mododecisivo alla riforma della Chiesa. Propone la conoscenza più ravvicinata di queste personalità spirituali, soffermandosi non di rado e con un approccio innovativo sulle grandi figure femminili, stimolando nei suoi lettori – o ascoltatori – il desiderio di imitazione e di sequela. Ma la sua ricerca del passato, che sa rendere attuale, anzi metro di valutazione per il presente, siproietta in ultima analisi verso il futuro, verso “i tempi ultimi”: non credo potrò dimenticare il giorno in cui ha portato in aula, fra il tanto materiale con cui spesso si accompagnava, le copie della Lettera a Diogneto (Epistola a Diogneto [Cap. 5-6; Funk 1, 317-321]), che ha distribuito a tutti i presenti. Ricordo i suoi occhi brillare, diventare quasi lucidi, quando ne ha letto il contenuto. Riporto qui di seguito qualche stralcio:
«I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano.
[…] Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. […]
Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto […]. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio.
Insomma, per parlar chiaro, i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. […] L’anima poi dimora nel corpo, ma non proviene da esso; ed anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. […]
L’anima ama la carne, che però la odia, e le membra; e così pure i cristiani amano chi li odia. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono detenuti nel mondo come in una prigione, ma sono loro a sostenere il mondo. L’anima immortale risiede in un corpo mortale; anche i cristiani sono come dei pellegrini che viaggiano tra cose corruttibili, ma attendono l’incorruttibilità celeste».
Dopo aver terminato la lettura del brano, mentre si accingeva a commentarlo, il volto del mio professore si è illuminato. Confesso che ho impiegato parecchi anni per comprenderne fino in fondo il perché. Poi ripensandoci, all’improvviso, mi è stato davvero chiaro il motivo di quelle emozioni: infatti Aldo Naro ha vissuto sulla terra ma ha posseduto la cittadinanza in cielo, ha amato tutti ed è stato perseguitato, è stato odiato ma coloro che lo hanno odiato non avrebbero saputo dire la causa del loro odio. Come un pellegrino che viaggia tra cose corruttibili, ha atteso con grande fede l’incorruttibilità celeste. Fino a raggiungerla.
La psicologia ha da qualche tempo cercato di rendersi conto della natura dei fatti artistici in riferimento alla psiche umana, sollevando una serie di problemi ai quali, se non una soluzione, ha dato almeno una impostazione seria e chiara.
Il tentativo di spiegare psicologicamente l’arte e l’artista incontra naturalmente i suoi limiti in due ordini di fatti: il primo è che la psicologia non è ancora in grado di precisare metodi e soluzioni definitive rivolgendosi a un campo, l’interiorità umana, che proprio per sua natura è molto difficile a cogliere in modo sperimentale nella sua purezza.
Il secondo è che la psicologia artistica vale, in ogni caso, ad illuminare un tipo di condizioni dell’esperienza estetica dell’uomo, ma non già l’esperienza estetica nella sua complessità e varietà di piani: i suoi risultati saranno perciò inadeguati a una completa spiegazione del fenomeno artistico.
È tuttavia di grande importanza rivelare i problemi che la psicologia moderna ha sollevato nel campo dell’estetica. Tali studi sono stati condotti soprattutto negli USA in corrispondenza alla tendenza generale della cultura di quel Paese di risolvere con lo psicologismo l’intera vita spirituale. Una prima serie di questioni s’innesta all’osservazione dell’attività creativa. Si studia, in questo caso, il funzionamento della mente dell’artista nella misura in cui essa può essere sperimentata.
Si procede a distinguere diverse fasi: una di preparazione, una di incubazione, una di illuminazione, una di verifica, e si riconosce in questo processo un atteggiamento particolare dell’artista verso gli oggetti della sua esperienza; atteggiamento che, a confronto dell’uomo normale, rivela maggiore attività del soggetto e una sua tendenza a esprimere qualche cosa da sé. La fonte di questi studi è naturalmente costituita in gran parte dalle confessioni degli stessi artisti.
È per esempio comune a molti di essi lavorare per molto tempo alla ricerca di una felice intuizione che rischiari tutta l’opera e che si verifichi solo più tardi e improvvisamente; dunque la psicologia forma l’ipotesi che il cosiddetto lavoro senza frutto sia in realtà necessario perché un meccanismo psichico si organizzi e riesca, alla fine, a produrre un risultato positivo. Un altro genere di analisi è rivolto a scoprire le reazioni psicologiche dell’artista nel corso della stessa esecuzione dell’opera: le bozze, le correzioni, le prove, i rifacimenti possono testimoniare il succedersi di reazioni emotive che hanno guidato il lavoro dell’artista e che la psicologia cerca di rintracciare e spiegare.
L’indagine psicologica si rivolge poi all’ambiente culturale e sociale in cui vive l’artista e cerca di trarre un duplice ordine di conclusioni: anzitutto accertare l’influenza dell’ambiente sulla formazione mentale dell’artista, e, in secondo luogo, scoprire come l’artista stesso reagisca alle condizioni in cui gli è stato dato di vivere. In questo caso possono costituire materia di informazioni alla scienza sia le opere, sia il comportamento dell’artista nelle sue relazioni sociali.
Ancora, la psicologia studia il formarsi del gusto e il particolare sviluppo che la mentalità dell’artista segue per arrivare a compiere la propria destinazione estetica. In definitiva, questa parte della psicologia artistica si pone il problema di indagare le condizioni fisiopsichiche della creazione artistica e che cosa le faccia differire dalla struttura psicologica dell’uomo normale.
Una seconda serie di ricerche si appunta invece ai valori estetici delle opere d’arte per sapere a quali reazioni psicologiche corrisponda nel contemplare l’esperienza della bellezza. Si tratta, in altre parole, di vedere quali sono le qualità di un’opera che suscitano in noi emozioni tali per cui noi affermiamo di trovarci dinnanzi alla bellezza artistica. Si possono allora distinguere, nel fenomeno della contemplazione, gli elementi riguardanti l’atteggiamento dello spettatore (visione disinteressata, intuizione, catarsi ecc.) e vedere a quali elementi obiettivi si debba riferirli.
L’estetica sperimentale studia appunto la forma oggettiva e le singole emozioni e reazioni che possono suscitare in noi e che, coi processi della psicologia, possono essere controllate e verificate. Studi di tal genere si propongono per esempio di accertare il valore emotivo delle pure forme geometriche (il perfetto rettangolo, la migliore croce, il profilo dorato), la piacevolezza dei colori, l’espressività delle linee e gli effetti della musica.
A proposito di quest’ultima, in particolare, sono state condotte indagini per rilevare il riflesso della melodia e del ritmo sui processi organici, l’umore che essi suscitano, l’uniforme tonalità sentimentale che creano nell’uditorio, il valore altamente emotivo del tempo veloce e del tempo lento con le particolari variazioni dei ritmi. A sua volta di fronte alla musica si distinguono i vari atteggiamenti dell’ascoltatore: c’è il tipo intersoggettivo che reagisce con impulso eccitativo, il tipo associativo che analizza e critica gli elementi della composizione, il tipo caratterizzatore che interpreta con qualità umane (morbidezza, allegria, misticismo) la musica stessa.
Allo stesso modo la recitazione e la lettura dei versi del periodo in prosa, la particolare cadenza della voce, la pausa, ecc. sono altrettanti piani d’indagine per uno studio che voglia fissare i riflessi psicologici della poesia e della letteratura. Analoghe ricerche vengono pure condotte per ogni altra arte.
Il termine «psicologia artistica» vale anche a significare la psicologia dei personaggi nelle opere di letteratura, specie nel romanzo. In tal caso si possono distinguere la posizione naturalistica che tende a riprodurre esattamente i movimenti fisiopsichici dell’agire umano e quella idealizzante che risolve i problemi psicologici in schemi ideali, per cui si sviluppa una psicologia che non è più quella dell’uomo reale, ma è un elemento della composizione artistica a cui concorre e alle cui leggi estetiche si sottomette. La psicologia diviene la forma stessa in cui si ordina l’agire dell’uomo nella letteratura.
LA SEGNALAZIONE
“Mia sorella sottoposta senza motivo a quattro TSO”
Buongiorno gentilissima redazione. Vorrei narrarvi la storia di mia sorella di 54 anni, 4 tso e altrettanti ASO. Ultimo oggi, con obbligo iniezione con farmaco psichiatrico. È partito tutto da alcuni parenti che hanno segnalato al CPS di San Donato Milanese, dopodiché da anni siamo bersagliate da continue pressioni a fare cure inadeguate. Per evitare i TSO mia sorella ha dovuto accettare di fare questa iniezione mensile. Ci siamo rivolti a diverse associazioni e anche ad avvocati chiedendo aiuto, ma nulla è servito.
Mia sorella, M.M., ha fatto una relazione psichiatrica ed è stata riconosciuta sana di mente, ma dall’ospedale di Melegnano sostengono il contrario. Per loro mia sorella non è sana di mente, per loro è una persona schizofrenica e paranoide. Non hanno mai fatto una perizia che dimostri questa loro teoria, ma comunque loro continuano a fare ricoveri forzati e a propinare tutti questi farmaci che comunque nel tempo hanno lasciato i loro segni. Io stessa che non ho subito una violenza come il TSO ma ne subisco indirettamente gli effetti mi sento impotente, avvilita, priva di forze e sconfitta davanti a un sistema che ritengo sia dittatoriale.
Perché priva non solo la persona ma tutta la famiglia delle libertà di scelta di andare dal medico che ispira fiducia e scegliere le cure con piena consapevolezza. Chiedo a voi di pubblicare questa lettera e attendo vostre notizie speranzosa, ringraziando porgo cordiali saluti. A.M.
LETTERE
Realizzare il sogno di Basaglia
A meno di una settimana dalla scomparsa del giovane di Lampedusa, che ha preferito gettarsi in mare dal traghetto piuttosto che subire un TSO, si è conclusa a Milano la mostra multimediale “Controllo sociale e psichiatria: violazioni dei diritti umani”. L’evento, organizzato dal Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani (CCDU), ha attirato oltre mille visitatori in cinque giorni, molti dei quali hanno voluto esprimere parole di ringraziamento e di complimenti sul libro degli ospiti, e si è concluso con un convegno intitolato “180 – una riforma incompiuta”.
Dopo i saluti del presidente del CCDU, avv. Enrico del Core, che ha voluto ricordare l’importanza vitale del diritto alla difesa nell’ordinamento costituzionale, il vicepresidente Alberto Brugnettini ha aperto i lavori ricordando le forti critiche e i dubbi espressi a suo tempo da Franco Basaglia nei confronti di una legge che, pur fregiandosi del suo nome, riproponeva le logiche manicomiali cambiandone solo il nome.
I primi a parlare sono stati Fabio, che ha riferito i gravi maltrattamenti cui è stato soggetto suo fratello durante la sua lunga esperienza nei servizi psichiatrici ospedalieri, le angherie e i soprusi di cui è stato testimone oculare, e le condizioni ignobili in cui vivono i degenti – costantemente sotto il ricatto della contenzione se non fanno i bravi.
Fabio ha concluso chiedendo che la medicina faccia un passo indietro e ammetta di non saper curare il disagio mentale. Maria Cristina Soldi, ha raccontato l’incredibile e dolorosa vicenda di suo fratello Andrea, ucciso a Torino nel 2015 durante un TSO. La vicenda legale si è chiusa recentemente con la condanna definitiva dei responsabili, ma resta l’amarezza per quanto è accaduto e per i particolari – assieme tragici e grotteschi.
Andrea Soldi se ne stava tranquillamente seduto sulla panchina di un parco torinese quando lo hanno avvicinato due psichiatri chiedendogli di seguire uno di loro per un trattamento sanitario. Andrea avrebbe volentieri seguito il secondo psichiatra, di cui si fidava, ma fu obbligato con la forza a seguire l’altro. Sdraiato a pancia in giù e con le mani legate dietro alla schiena, Andrea morì soffocato durante il trasporto in ambulanza. I familiari si sentirono dire dai medici che il loro congiunto era morto d’infarto, per poi scoprire l’amara verità dalla stampa.
La dottoressa Eleonora Alecci, psicologa e psicoterapeuta con un passato in un reparto psichiatrico in cui si praticava la contenzione, ha confermato che i fatti riferiti da Fabio sono la routine quotidiana, e ha ribadito il suo impegno verso il superamento di queste pratiche, impegnandosi in un programma di addestramento del personale medico e infermieristico, come anche spiegato nel corso di un suo recente intervento al congresso della Società Italiana di Psichiatria.
La dottoressa Maria Rosaria D’Oronzo, collaboratrice per molti anni di Giorgio Antonucci – il medico e psicoterapeuta che liberò i “matti” del manicomio di Imola dimostrando al mondo intero che è possibile alleviare la sofferenza mentale senza usare forza o coercizione – ha ricordato il lavoro di Antonucci, e il suo profilo di umanitario, ben documentati nell’archivio online di cui la dottoressa D’Oronzo è curatrice.
L’avvocato Michele Capano, dell’Associazione Radicale Diritti alla Follia e del Direttivo Radicale, ha denunciato l’incredibile contraddizione della legge italiana, che da una parte ha ratificato le risoluzioni ONU per la cessazione delle pratiche coercitive in psichiatria, e dall’altra mantiene in vigore una legge che le consente. L’Associazione Diritti alla Follia e il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani intendono lavorare assieme, e coinvolgere altre associazioni e individui, per una riforma della 180 in senso garantista, che superi questa contraddizione e realizzi il sogno basagliano.
LETTERE
Caro premier, si ricordi di tutti i totalitarismi
Egregio Signor Presidente, da italiani, sia per scelta sia per nascita, non possiamo che essere contenti per l’esercizio di democrazia registrato con le elezioni dello scorso 25 settembre. Finalmente saremo guidati da un governo espressione del voto popolare e non da uno maturato da accordi di Palazzo, come accaduto negli ultimi anni.
Abbiamo ascoltato con grande interesse, in questi giorni, le dichiarazioni degli esponenti della maggioranza appena eletta e che lei, signor presidente, avrà l’onore e l’onere di guidare. Da tali esponenti, in queste ore, è stato espresso ripetutamente un concetto che ci sentiamo di condividere totalmente: uno Stato è tanto più credibile ed è tanto più considerato, quanto più onora e rispetta i Trattati internazionali che esso stesso ha sottoscritto.
Noi crediamo che sia arrivato, alfine, il momento di rispettare quei Trattati che non sono stati ottemperati fino ad oggi, provocando, in tal modo, un grave danno al mondo dell’Esodo Giuliano-Dalmata. Ci riferiamo al Trattato di Pace di Parigi del 1947 il quale, al punto 9 dell’allegato XIV, stabilisce che: “I beni degli italiani residenti nei Territori ceduti […] non potranno essere trattenuti o liquidati […], ma dovranno essere restituiti ai rispettivi proprietari”.
Come sappiamo a tale Trattato, ampiamente disatteso, seguirono diversi accordi bilaterali tra Italia e Jugoslavia – accordi del 23/05/1949, 23/12/1950, 18/12/1954 – tutti poi tramutati in Leggi attuative, che in sintesi sancivano il pagamento dei debiti di guerra dell’Italia nei confronti delle Jugoslavia utilizzando i beni degli Esuli a fronte dell’impegno dello Stato italiano di un successivo risarcimento per l’esproprio perpetrato.
Ebbene, gli Esuli istriani, fiumani e dalmati ed i loro discendenti, sono ancora in attesa di un “equo indennizzo”, avendo percepito solo una minima parte di quanto promesso. Si tratta di un indennizzo che, secondo i nostri calcoli, si aggira intorno ai 4,5 miliardi di euro. Una cifra che sembra enorme, ma che se confrontata con l’attuale debito pubblico (ad oggi pari a circa 2770 miliardi) rappresenta l’1,6 per mille.
Quanto fin qui non è solo una questione di vile danaro, si tratta, piuttosto, di un’espressione di civiltà attesa da lunghi decenni da un intero popolo. Gli Esuli e i loro discendenti si sono rifatti una vita in Patria, eppure resta l’insopportabile retrogusto amaro nella consapevolezza di essere stati ignobilmente usati per questioni geopolitiche giocate sulla propria pelle.
La vita della nostra Gente è stata tutta in salita per troppo tempo, anche dal punto di vista culturale. Sempre a dover giustificare la propria identità, sentendosi dire che la sofferenza patita era il giusto scotto per colpe di altri. Il giustificazionismo è un concetto terribile che porta allo stupro della ragione, definendo accettabile l’eliminazione di un qualcosa o qualcuno – magari per mezzo di una foiba -, su cui far ricadere i misfatti di qualcun altro.
Per questi motivi auspichiamo anche l’emendamento della Legge 167/2017 che punisce la propaganda, l’istigazione e l’incitamento al razzismo e chiediamo l’inserimento di una menzione specifica al negazionismo e giustificazionismo per i crimini commessi in Istria, Fiume e Dalmazia in merito alla persecuzione anti-italiana avvenuta a guerra finita. Così come auspichiamo che possa essere emendata la Legge 178/1951 che disciplina il conferimento delle onorificenze al Merito della Repubblica, senza la quale non è possibile la revoca del cavalierato assegnato al Maresciallo Tito, causa di dolore e sofferenza non solo per la nostra Gente, ma per centinaia di migliaia di persone che si opponevano alla dittatura comunista jugoslava.
A tale proposito vogliamo ricordare il pronunciamento del 19 settembre 2019 in cui il Parlamento Europeo – presieduto da David Sassoli – approvò a larghissima maggioranza (89%) la risoluzione: “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che condanna tutti i totalitarismi del XX secolo, equiparando in tal modo il comunismo al nazismo. L’attuale maggioranza, così come maturata il 25 Settembre, ha dimostrato nel tempo grande sensibilità ai temi qui riportati. Confidiamo nella sua futura opera.
*Esule di seconda generazione nato al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma nel 1959. Past-President FederEsuli – Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati – Vicepresidente Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Consigliere Associazioni Dalmati Italiani nel Mondo – Fondatore MondoEsuli – Movimento per la memoria e la promozione di Istria, Quarnaro e Dalmazia»
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it