Cosa ci insegnano i ritratti (e cosa possiamo afferrare capendone il senso)
di Paolo Battaglia La Terra Borgese
In ogni tempo si è sentito il bisogno di definire il ritratto e di chiudere in una formula concettuale il concorso da questo dato alla civiltà. Si è chiesto all’attimo che fugge di fissare il volto nell’eterno. E sempre l’attimo ha risposto il suo no. Così ogni volta che si è voluto assegnare quel dato compito ben definito e costante alle attività artistiche in tal senso, ecco che contraddizioni stridenti hanno costretto la formuletta a infrangersi. Il ritratto è uno dei più diffusi e significativi modi della scultura e della pittura. Ma la sua importanza nella storia dell’arte è data dagli sviluppi che esso ebbe attraverso i tempi a seconda del diverso modo di concepirlo.
Accade perciò che l’arte greca arcaica non intese il ritratto come la individuazione di una persona attraverso i suoi caratteri somatici. Non si curò quindi della somiglianza, poiché l’artefice greco, più che un dato individuo tendeva a ritrarre un tipo: atleta, sacerdote, oratore, poeta ecc. Legata a questo concetto la ritrattistica greca si svolse su formule convenzionali. Obbedì soprattutto a intenti celebrativi, specialmente dopo le prime guerre persiane, quando sorse il desiderio di riprodurre le sembianze degli eroi e dei condottieri che avevano contribuito alla grandezza di Atene.
Tuttavia il ritratto si determinò nell’arte greca in un periodo successivo, con l’evolversi della società verso forme in cui l’individualismo aveva modo di affermarsi sempre più. Allora alle immagini dei condottieri si preferirono quelle dei filosofi, dei tragedi, dei pensatori e dei poeti. La ritrattistica vera e propria fiorì invece nel periodo ellenistico, specie con Alessandro Magno, del quale vari artisti, come lo scultore Lisippo, il pittore Apelle e l’incisore di gemme Pirgotele, ritrassero le sembianze. Largo sviluppo ebbe il ritratto scultorio nell’arte romana, che lo ereditò, forse, dagli etruschi. La ritrattistica romana, se pur perseguì intenti celebrativi, fu sempre improntata ad un vivo senso realistico e ad uno studio profondo del carattere.
Nel Medio Evo la tradizione ritrattistica classica vien meno; il fondamento antinaturalistico e astratto su cui si basa l’arte bizantina è antitetico a qualsiasi forma di individuazione. Dopo qualche timido accenno nell’arte del Trecento (Giotto, Sirnone Martini ecc.), il ritratto fiorì rigoglioso nel Rinascimento, periodo storico che ebbe un vero culto per l’individuo, seppure eroicizzato, e per il naturalismo. Capolavori assoluti diede la pittura del Quattrocento nel ritratto per opera di Masaccio, Andrea del Castagno, Piero della Francesca, Botticelli, Ghirlandaio, Pollaiolo, Mantegna, Pisanello, Antonello da Messina, Bellini. Nella scultura, Donatello, il Pollaiolo, il Verrocchio, il Rossellino, Desiderio da Settignano, F. Laurana ecc. realizzarono mirabili busti, ora con vigoroso realismo, ora con meditata astrazione formale. Fuori d’Italia il ritratto raggiunse alte espressioni coi fiamminghi Van Eyck, Roger Van der Weyden, e lo squisito Memlinc.
Nel Cinquecento il ritratto italiano si informa all’arte di Leonardo che legandolo al paesaggio attua per primo una interpretazione psicologica della figura. Raffaello, Andrea del Sarto, Sebastiano del Piombo e il Bronzino danno alla ritrattistica una solenne ed aulica monumentalità. I Veneti, vi aggiungono la malia del colore e la ricchezza suntuosa dei costumi. Giorgione informa i suoi ritratti di un senso di mistero e di melanconia. Tiziano traduce il modulo giorgionesco con accesa fantasia cromatica, e spesso con drammatici accenti. Una commossa e quasi romantica passionalità spira dai ritratti del Lotto, del Savoldo, del Moretto e del Moroni. Il Tintoretto, pur rifacendosi al Tiziano, porta nel ritratto la sua nuova concezione luministica, tutta fosforescenza ed instabilità; Paolo Veronese la viva gioia del suo schietto colorismo. Il ritratto scultoreo del Cinquecento raggiunge nobilissime espressioni con Alessandro Vittoria.
In Francia, nei primi anni del Cinquecento, la ritrattistica si riduce a una documentazione della vita di corte del tempo. Acuti scrutatori del carattere sono invece, i tedeschi: Cranach, Dürer e Hans Holbein. Nel Seicento il genere ritratto fa da argine alla retorica delle grandi composizioni e raggiunge notevole forza di penetrazione; da ricordare tra i ritrattisti: Guido Reni, il Guercino, Giuseppe Maria Crespi, Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, e, per gli scultori, il Bernini e I’Algardi. Nel Settecento Rosalba Carriera crea a Venezia, con i suoi pastelli, un particolare tipo di ritratto, sensuale e mondano. La gloriosa tradizione cinquecentesca si perpetua nel Tiepolo, con inflessioni più moderne, in Alessandro Longhi, mentre in Lombardia Vittore Ghislandi impersona il tipo del pittore ritrattista, con opere in cui l’immediatezza piacevole va unita ad un saldo e sicuro senso plastico.
In Francia celebri ritrattisti furono H. Rigaud, F. De Troy e N. De Largilliere, e, nel Settecento, Nattier, Watteau, Boucher e Fragonard. In Spagna la ritrattistica del Seicento si mantenne nei limiti del ritratto di corte. Si rinnovò poi col Greco, che vi portò la sua intensità espressiva, e con il fastoso Velasquez. In Fiandra la tradizione cinquecentesca italiana è rivissuta, con genialità e foga sensuale, dal Rubens e dall’aristocratico Van Dyck. In Olanda il ritratto con Rembrandt acquista una spiritualità che ne trasfigura ogni carattere oggettivo, ben lontana dal vigoroso e schietto naturalismo di Franz Hals. In Inghilterra fra i ritrattisti sono da annoverare il malizioso Hogarth e il raffinato Gainsborough.
Nel periodo neoclassico il ritratto è ottimo pretesto per evadere dalle formule accademiche. Si risolve in ponderate sintesi nei busti modellati dal Canova, mentre i pittori francesi, da David ad Ingres, vi si esprimono con forza plastica e acceso sentimento. Col romanticismo il ritratto si fa sempre più interpretazione della vita interiore del personaggio, la cui figura, più che delineata nei tratti fisionomici, è resa in quello che ha psicologicamente di espressivo. Questo è il significato dei ritratti di Goya, di Delacroix, di Daumier e di altri. Per gli impressionisti il ritratto è un motivo, pretesto alle liriche modulazioni del colore e della luce (Manet, Renoir). Una nuova dignità gli conferisce invece Cézanne, esercitandovi il suo spiccato senso strutturale, e, in Italia, G. Fattori, improntandolo della sua forza rude e primitiva.
La crisi del senso dell’individuo che si verifica nella società moderna dei primissimi anni del ‘900 e che è denunciata in modo clamoroso dall’espressionismo, ha determinato una nuova interpretazione del ritratto, come analisi psicologica e sociale febbrile e spesso irritata e spietata (Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Kokoschka, Grosz, Modigliani). I movimenti più moderni e all’avanguardia dell’arte, come il cubismo, il fauvisme, l’astrattismo, e, poi, anche la tendenza artistica conosciuta come pop art, quando non lo rifiutano, ne devastano completamente il significato oggettivo, naturalistico e psicologico. E tale devastazione è ancora più evidente nel sec. XX con i britannici Lucian Freud (nipote di Sigmund Freud) e Francis Bacon.
Del XXI sec., invece, è da segnalare il guinness del 2008, quando Christie’s vende il ritratto di Freud “Benefits Supervisor Sleeping” (1995) all’asta, a New York, per 33,6 milioni di dollari, un record assoluto per valore di vendita di un dipinto di un artista vivente.
ARTE & CULTURA
Munch a Milano dopo 40 anni. Con una retrospettiva
Dal 14 Settembre 2024 al 26 gennaio 2025 Palazzo Reale renderà omaggio a uno dei più grandi artisti del Novecento, con un percorso di 100 opere eccezionalmente prestate dal Munch Museum di Oslo. L’ampia retrospettiva racconterà l’intero percorso umano e artistico di Munch, esponendo opere tra le più note e iconiche della storia dell’arte.
Dopo 40 anni dall’ultima mostra a Milano, Edvard Munch (Norvegia, 1863 -1944) viene celebrato con una grande retrospettiva promossa da Comune di Milano – Cultura con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia in collaborazione con il Museo MUNCH di Oslo.
Tra i protagonisti della storia dell’arte moderna, Munch è stato uno dei principali artisti simbolisti del XIX secolo ed è considerato un precursore dell’Espressionismo, oltre a essere un maestro nell’interpretare le ansie dell’animo umano.
La mostra – curata da Patricia G. Berman in collaborazione con Costantino D’Orazio per il supporto nella redazione dei testi di approfondimento in mostra – racconta tutto l’universo dell’artista, il suo percorso umano e la sua produzione grazie a un percorso di 100 opere, tra cui una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895) custodite a Oslo, La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901) e Danza sulla spiaggia (1904).
Ad arricchire la mostra milanese, è previsto un ricco palinsesto di eventi che coinvolgerà diverse realtà culturali della città e che andrà ad approfondire la figura dell’artista e ad espandere i temi delle sue opere.
L’ARTISTA
Munch è uno degli artisti che ha saputo meglio interpretare le inquietudini dell’anima, comunicandoli in maniera potente e diretta. Plasmato inizialmente dal naturalista norvegese Christian Krohg, che ne incoraggiò la carriera pittorica, negli anni Ottanta del Novecento si recò a Parigi dove assorbì le influenze impressioniste e postimpressioniste che gli suggerirono un uso del colore più intimo, drammatico ma soprattutto un approccio psicologico.
A Berlino contribuì alla formazione della Secessione Berlinese e nel 1892 si tenne la sua prima personale in Germania, che non fu compresa: da quel momento in poi Munch viene percepito come l’artista eversivo, alienato dalla società, un’identità in parte promossa dai suoi amici letterati.
A metà degli anni Novanta del XIX secolo si dedicò alla produzione di stampe e, grazie alla sua sperimentazione, divenne uno degli artisti più influenti in questo campo. La sua produttività e il ritmo serrato delle esposizioni lo porteranno a ricoverarsi volontariamente nei sanatori a partire dalla fine degli anni Novanta del XIX secolo.
Dopo aver vissuto gran parte della sua vita all’estero, l’artista quarantacinquenne tornò in Norvegia, stabilendosi al mare, dipingendo paesaggi e dove iniziò a lavorare ai giganteschi dipinti murali che oggi decorano la Sala dei Festival dell’Università di Oslo. Queste tele, le più grandi dell’Espressionismo in Europa, riflettono il suo sempre vivo interesse per le forze invisibili e la natura dell’universo.
Nel 1914 acquistò una proprietà a Ekely, Oslo, dove, da celebre artista internazionale, continuò il suo lavoro sperimentale fino alla morte, avvenuta nel 1944, appena un mese dopo il suo ottantesimo compleanno.
LA MOSTRA
Nel corso della sua lunga vita Edvard Munch realizzò migliaia di stampe e dipinti. Essendo tanto un uomo d’immagini quanto di parole, riempì fogli su fogli di annotazioni, aneddoti, lettere e persino una sceneggiatura per il teatro. L’esigenza di comunicare le proprie percezioni, il proprio “grido interiore”, lo accompagnò per tutta la vita, e proprio questa attitudine è stato il motore della sua pratica come artista, che ha toccato tanto temi universali – come la nascita, la morte, l’amore e il mistero della vita – quanto i disagi connessi all’esistenza umana e le sue instabilità.
Questa mostra ruota attorno al ‘grido interiore’ di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni.
Altre opere, invece, cercano di immortalare le forze invisibili che animano e tengono insieme l’universo. L’inizio della sua carriera coincide infatti con cambiamenti radicali nello studio della percezione: alla fine dell’Ottocento è in corso un dibattito tra scienziati, psicologi, filosofi e artisti sulla relazione tra quello che l’occhio vede direttamente e come i contenuti della mente influiscono sulla nostra vista. Il suo interesse per le forze invisibili che danno forma all’esperienza, condizionerà le opere che lo rendono uno degli artisti più significativi della sua epoca.
Quando Braque espose alcuni paesaggi al Salon d’Automne del 1908, rifacendosi in parte a Cézanne, qualcuno osservò che dipingeva con “piccoli cubi”. Era Matisse
“To’, guarda i cubi”, disse esattamente Matisse fermandosi ad osservare i paesaggi di Braque in cui le case somigliavano a dadi. La frase fece il giro di Parigi, fu ripresa dai giornali e dalla battuta spiritosa nacque il termine di Cubismo, che stava a indicare un’estetica nuova: l’artista guarda un oggetto reale, lo decompone nei suoi elementi e lo riorganizza secondo un ordine intellettuale, che non ha più nulla a che vedere con la realtà.
Quando Braque espose alcuni paesaggi al Salon d’Automne del 1908, rifacendosi in parte a Cézanne, qualcuno osservò che dipingeva con “piccoli cubi”.
Dalla battuta spiritosa nacque il termine di Cubismo, che stava ad indicare un’estetica nuova: l’artista guarda un oggetto reale, lo decompone nei suoi elementi e lo riorganizza secondo un ordine intellettuale, che non ha più nulla a che vedere con la realtà.
La Natura morta che riproduciamo (in alto, nella foto, un dettaglio) è del 1912, appartiene cioè al periodo del cubismo “analitico”.
Poiché gli si rimproverava un certo ermetismo, Braque introdusse a quel tempo nelle sue composizioni un elemento nuovo, che doveva riallacciare il quadro al mondo reale: le lettere tipografiche, come in questa scritta incompleta, Journal (procedimento introdotto per la prima volta da lui nell’opera Il Portoghese del 1911, e utilizzato poi largamente da tutti i Cubisti).
Questa Natura morta, una delle numerose “esercitazioni” su tale tema, non ha più alcun riferimento con la realtà. Gli oggetti che la compongono non sono riconoscibili, ma sono proiettati e scomposti sulla superficie del quadro attraverso una serie di grandi piani.
È riconoscibile invece la loro materia: superfici in falso legno, frammenti in falso marmo si richiamano a una realtà esistente, a un mondo concreto. (Braque utilizzò spesso queste “imitazioni”, rifacendosi all’esperienza compiuta da ragazzo nella bottega paterna come decoratore.
Più tardi arriverà al “collage”, all’applicazione cioè sulla tela di ritagli di giornale, pezzi di stoffa, carte da gioco, riallacciati alla superficie del quadro da una pennellata, da un tocco di gouache).
Osserviamo ancora, finendo, che già in questa Natura morta Braque cerca gli accordi preziosi di colore, avvalendosi di pochi toni: una grandissima maestria.
Visitare una cattedrale o un edificio ed essere in grado di distinguerne l’epoca richiede almeno una sommaria conoscenza dei caratteri architettonici delle varie epoche e, principalmente per l’inesperto, il sapere dove posare l’occhio per individuare tali caratteristiche.
Allora, se visitiamo una chiesa, gettiamo anzitutto un’occhiata alla parte esterna, osservandone la facciata, le finestre, i portali e i contrafforti, gli archi rampanti, i campanili, fissando la nostra attenzione alle loro caratteristiche; entreremo poi nell’interno, dove osserveremo la pianta della costruzione, le colonne, i capitelli, le volte, gli archi, cercando di captarne i principali particolari costruttivi; diciamo i principali particolari costruttivi poiché, va detto subito ed è importante, non dobbiamo pretendere di voler determinare l’epoca esatta di un’opera d’architettura basandoci esclusivamente sui caratteri stilistici che abbiamo sotto gli occhi.
Le chiese, specialmente, non sono state di solito costruite in “una sola stagione” e di frequente vi si trovano mescolati e gli stili di varie epoche e i vari sistemi costruttivi. Quanti soffitti e quante facciate, per esempio, sono stati rifatti per cause diverse ed eseguiti in epoche posteriori senza preoccuparsi di rispettare la struttura originaria!
Dopo aver cercato di individuare l’epoca del monumento che visitiamo cominceremo a meglio comprenderne la possanza dell’insieme e la bellezza dei particolari e, nella nostra pochezza, saremo più preparati e meno intimiditi di fronte alla creazione d’arte che ci dà tanta emozione.
Contrariamente alla credenza popolare che lo vuole tipica espressione dell’arte tedesca (anche il Vasari la chiama, impropriamente, “tedesca”), questo stile nacque in Francia e di là si diffuse in tutta l’Europa.
Si potrebbe dire che le nuove aspirazioni ed il raffinarsi della civiltà artistica, il senso religioso ancor più legato alle cerimonie del culto ed il desiderio, forse, di esprimere il misticismo in una sinfonia di linee lanciate verso l’alto con l’arco a sesto acuto che sembra voler ripetere il gesto delle mani congiunte nell’atto di pregare, siano stati il lievito che ha contribuito allo sviluppo del passaggio dalle forme romaniche al Gotico. Inoltre, rispetto al Romanico pesante e massiccio, perché rispondente a regole costruttive empiriche, il gotico si basa sul calcolo matematico, adottando le prime regole della statica; regole che saranno poi approfondite nel Rinascimento, dominato dal sommo Michelangelo, che all’austerità ed alla forza unirà forme leggiadre ed eleganti.
Caratteristico del Gotico è l’uso diffusissimo dell’arco a doppio centro, a sesto acuto, e lo slanciarsi verso l’alto delle strutture del fabbricato.
I contrafforti che prima erano quasi dissimulati poiché inderogabile necessità costruttiva, diventano, nel Gotico, parte integrante della decorazione, legano l’edificio come in una armatura che pare voglia fare individuare i punti dove è concentrato il gioco tra il peso e il sostegno.
L’arco a sesto acuto, lanciandosi verso l’alto, richiede che i piedritti sui quali appoggia siano ravvicinati e perciò le colonne si moltiplicano. Le finestre aumentano di numero e illuminano maggiormente gli interni.
I pilastri sono dei veri fasci di colonne verso le quali vanno a terminare i costoloni e i sottoarchi.
I capitelli finiscono per essere delle specie di nicchie dove sono solitamente posate delle statue.
La decorazione è ricca, esuberante di statue e di fregi di ogni dimensione con soggetti estremamente vari. La pianta, nell’architettura chiesastica, è quella basilicale dove però le campate crescendo di numero – per una necessità di una più fitta serie di pilastri – diventano spesso rettangolari con il lato più lungo volto verso la larghezza della navata centrale. L’abside è sostenuta dal coro poligonale circondato da cappelle e la cripta quasi sempre è sparita.
La tipica copertura è formata dalla volta a crociera. I campanili hanno una base quadrata, ma spesso più in alto sono ottagoni.
L’Arte Gotica è originaria della fine del XII secolo ed ha avuto il suo massimo splendore nel secolo XIV. Le varie forme di Gotico si raggruppano normalmente in gotico francese, tedesco, italiano, inglese e spagnolo. Ma mentre il Gotico francese e tedesco hanno tra loro una affinità dovuta alla priorità di adozione di questo stile, il Gotico italiano rifiuta, si può dire, gli elementi decorativi stranieri e finisce col diventare un gotico a sé, con caratteristiche rispecchianti il gusto latino (S. Maria del Fiore ne è un tipico esempio). In Italia solo il Duomo di Milano si può dire rispettoso delle più pure regole costruttive e decorative del Gotico francese e tedesco. Altra caratteristica del Gotico italiano è la pittura murale che Giotto introdusse abolendo in parte le superfici a grandi vetrate che avevano tolto lo spazio necessario alla pittura.
È necessario citare fra gli esempi tipici di arte gotica in Italia, veri incomparabili gioielli (oltre alla già citata S. Maria in Fiore ed il Duomo di Milano), la Cattedrale di Orvieto, la Chiesa di S. Francesco in Assisi, S. Petronio di Bologna, il Duomo di Siena, per tacere di numerose altre chiese.
ARTE & CULTURA
Cucinotta a Rec News: “Il mio Sud nel nuovo film da protagonista” (Video e Gallery)
Maria Grazia Cucinotta è la protagonista del nuovo film di Beppe Cino “Gli agnelli possono pascolare in pace”, presentato ieri in anteprima a Roma al Cinema Caravaggio e nelle sale dall’11 aprile. Nella pellicola ambientata in Puglia è Alfonsina, donna ingenua con abitudini singolari che a un certo punto viene colta da sogni rivelatori.
Bidella in pensione devota al culto dei cari defunti e lontana dal fratello, sarà un inaspettato incontro con il Sacro a mettere ordine in tutti quegli aspetti della sua vita rimasti in ombra, e a svelare i legami e i segreti che animano il borgo pugliese dove abita. Abbiamo intervistato Maria Grazia Cucinotta a margine della proiezione dell’anteprima romana.
Quanto c’è di lei nel film “Gli agnelli possono pascolare in pace?
Di sicuro il Sud. Il Sud mi appartiene e di conseguenza c’è molto di questo suo modo di essere. Attaccata alla terra, attaccata agli affetti, attaccata alla verità. E’ anche un personaggio molto distante. E’ una bidella che ama Pasolini e sembra uscita un po’ fuori da una favola. Anche il mondo che la circonda sembra essere uscito fuori da un piccolo metaverso che si muove in un mondo moderno.
Il film ha un messaggio particolare?
Ce ne sono tanti di messaggi, tra l’altro attualissimi. Tutte le guerre sono dettate dai confini e dal potere e un po’ questo film parla proprio di questo e al fatto che tutti i confini e tutti i pregiudizi portano alla fine alla rabbia e alla non accettazione. E’ un messaggio molto importante. Tra le risate e queste visioni c’è una grande verità.
Progetti futuri che può anticiparci?
Questo film è in uscita quindi aspettiamo di vedere come va. L’11 uscirà in tutta Italia e speriamo che la gente torni al cinema.