Gli italiani che avrebbero contribuito alla frode elettorale americana. “In ballo 400 milioni”
Dopo quella dei Biden, un’altra spy story anima gli States. Un rincorrersi di ipotesi e vicende processuali che il mainstream sta facendo passare sottotraccia che potrebbero – in ultima analisi – influenzare le sorti della presidenza
Dopo quella di Hunter e Joe Biden, un’altra spy story (questa volta squisitamente elettorale) anima il dibattito sulle sorti degli States. Un rincorrersi di ipotesi e (vere) vicende processuali che il mainstream sta facendo passare completamente sottotraccia che potrebbero – in ultima analisi – arrivare ad influenzare l’insediamento di Joe Biden, che è previsto per il 20 di questo mese. A seconda dell’evolversi degli eventi, anche la prosecuzione dell’esperienza politica di Conte potrebbe essere messa a repentaglio. Ma la magistratura statunitense – che nelle ultime settimane ha dato il suo peggio – potrebbe comunque venirgli in soccorso.
A essere sotto accusa, nel dettaglio, sono le controverse operazioni di voto che hanno caratterizzato le elezioni americane. I modi per ottenere a tutti i costi l’elevazione a presidente di Sleepy Joe – mettendo da parte i democratici sinceri – sarebbero stati più di uno, tutti ugualmente fraudolenti. Il matematico Robert Piton ha svelato negli scorsi giorni tramite elaborati fogli di calcolo la truffa degli “elettori fantasma” che avrebbe riguardato Stati come la Georgia e la Pennsylvania; c’è stato poi il controverso episodio delle “schede bianche truccate” e, prima ancora, le ambiguità che hanno caratterizzato il voto per posta.
A gettare ulteriormente benzina sul fuoco di elezioni già di per sé tormentate, sono poi arrivate le dichiarazioni dell’ex agente della Cia Bradley Johnson, che ha parlato di una frode elettorale elaborata che avrebbe avuto come cuore pulsante proprio l’Italia e la partecipata statale Leonardo S.p.a. (che avrebbe messo a disposizione perfino un satellite) il cui maggiore azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze.
Nell’inghippo, sarebbe addirittura coinvolto l’ex premier Matteo Renzi, anche se da parte dell’interessato è arrivata una smentita (in basso). Il suo ruolo e quello di Obama sarebbe stato preponderante per l’organizzazione delle elezioni considerate truffaldine: questo affermerebbe la presidente di “Nation in Action” Maria Zack in un audio circola in rete non ancora autenticato (nel video, Zack nel corso di un’intervista parla delle elezioni manipolate e del coinvolgimento del governo Conte).
“#Italydidit (l’Italia lo ha fatto) Arturo D’Elia ammette la frode elettorale” – fonte video
Nell’audio che circola in rete, la donna chiama in causa Leonardo e l’ambasciata americana di Via Veneto, a Roma, soffermandosi sul ruolo che avrebbero ricoperto il generale Claudio Graziani e l’ex agente dei Servizi segreti Stefano Serafini. Il primo (che avrebbe ricoperto il ruolo di coordinatore dell’operazione) è stato Capo di Stato Maggiore nei governi Renzi e Gentiloni ed è attualmente presidente del comitato militare dell’Unione europea.
A coronamento di tutto, la testimonianza giurata di Arturo D’Elia (attualmente in carcere) consulente informatico che avrebbe ammesso il suo ruolo nell’ambito dell’intera operazione. Ci sarebbe poi stato un giro di fondi neri che sarebbe stato messo a disposizione dall’Iran. Cifra considerevole: 400 milioni che sarebbero finiti nelle disponibilità di un Barack Obama che come si diceva sarebbe stato legato a doppio giro all’ex premier Matteo Renzi.
L’ex premier smentisce (ma non ancora nel merito)
Renzi ha, tuttavia, di recente smentito il suo coinvolgimento nella frode elettorale americana. “Alcuni profili trumpiani – è quanto ha scritto in una enews – hanno accusato Obama e il sottoscritto di “orchestrare” campagne contro Trump. Siamo alla follia totale. I responsabili di queste menzogne hanno ricevuto il pardon – una sorta di grazia – da Trump qualche settimana fa”. Renzi ha dunque minacciato azioni legali: “Sto cercando con i miei avvocati – ha detto – di chiedere comunque di portare questi signori davanti alla giustizia italiana. Quello che dicono di me è folle: ci mancava giusto che mi accusassero di complotti internazionali. Ma ancora più grave è che questi signori la facciano franca”.
ESTERI
Moldavia, il governo europeista di Sandu fa chiudere il quinto canale
Il governo moldavo guidato dall’europeista di ferro Maia Sandu ha sospeso la licenza a un altro canale televisivo. Questa volta a fare le spese delle politiche repressive in fatto di libertà di stampa è stato il quinto canale. La decisione della sospensione è stata presa dal Consiglio per la promozione dei progetti di investimento di importanza nazionale il 21 di questo mese, ed è stata motivata con la necessità di esaminare la documentazione relativa alla concessione all’emittente. “Troppi file da consultare”, la scusa arrivata dal Palazzo di Chisinau, mentre fuori le proteste dei giornalisti imbavagliati si fanno sempre più accese.
“Questo caso dimostra ancora una volta che in Moldavia non ci sono più media liberi, poiché il governo teme che un canale televisivo possa compromettere la sicurezza dello Stato”, ha detto Ludmila Belcencova, presidente dell’organizzazione non governativa di giornalisti Stop Media Ban. “Il nostro governo tratta i giornalisti come criminali e questo dovrebbe preoccupare molto la comunità internazionale”, ha detto ancora Belcencova, che ha ricordato il ruolo usurpatore di alcuni organismi.
“Sono ormai due anni – ha detto l’attivista – che il giornalismo in Moldavia non è regolato dal Consiglio per l’audiovisivo, ma da organismi che non hanno nulla a che fare con i media, come la commissione temporanea creata per mitigare la crisi energetica o gli investimenti. Questo dimostra solo che il nostro governo ha troppa paura del pluralismo delle opinioni e delle voci della gente. Non c’è più libertà di parola in Moldavia”. Da qui la richiesta, conclusiva, rivolta alla comunità europea di “prendere posizione contro la repressione della libertà di stampa e di parola in Moldavia”.
ESTERI
Scandali, presunti decessi, arrivi e partenze. Il lavorìo per far cadere la Monarchia in Gran Bretagna
E’ un brutto momento per la corona britannica. E, si direbbe, nulla è casuale. L’elezione di Carlo III ha dato il “la” – oltre che a un regno a guida maschile – alle mire di chi non vede di buon occhio la monarchia. E’ infatti con Carlo – sovrano flemmatico e poco carismatico – che si stanno di giorno in giorno moltiplicando le manifestazioni di chi chiede – a torto o a ragione – una nuova forma di governo per la Gran Bretagna.
Un modo per farle pagare l’uscita dall’Europa? O la conseguenza prevedibile della scomparsa di Elisabetta II? Non si sa ma quel che è certo è che anche a quelle latitudini i burattinai si stanno dando un gran da fare. Pianificando e diramando un comunicato clamoroso dietro l’altro, poi ripresi a ruota dai social: la malattia di Carlo, il ritorno a Corte dell’amico di Epstein Andrea e, adesso, perfino il decesso di Kate Middleton.
Quanto ci sia di vero è difficile saperlo. Quel che è certo è che l’obiettivo delle fughe di notizie – vere o presunte tali – è quello di restituire l’immagine di un regno debole, che si smantella ogni giorno di più a colpi di esternazioni tutt’altro che casuali.
ESTERI
Canada, proposta
di legge di Trudeau
per silenziare il dissenso online
Che Justin Trudeau, il primo ministro canadese, non fosse un campione in fatto di libertà garantite lo si era capito nel periodo covid, quando aveva promosso lockdown, Green Pass e vaccinazioni di massa. Adesso a certificare quest’ansia di controllo è arrivata una proposta di legge sui social media che si chiama Online Harms Act, che dietro gli apparenti buoni propositi nasconderebbe la volontà di silenziare il dissenso online, sempre maggiore dopo le scelte impopolari assunte da Trudeau.
Secondo Fox News la proposta scaturita dal disegno di legge del ministro alla Giustizia Arif Virani, consentirebbe di punire una persona prima che abbia commesso un reato, sulla base di informazioni quali la recidività del soggetto e il suo comportamento. Un’applicazione di quella Giustizia predittiva di cui si sente parlare sempre più spesso. “Un giudice provinciale – hanno rimarcato dall’emittente statunitense – potrebbe imporre gli arresti domiciliari o una multa se ci fossero ragionevoli motivi per credere che un imputato commetterà un reato.”
Una proposta che non ha frenato il dissenso online in Canada ma, anzi, lo ha aumentato, come raccontano le esternazioni di alcuni utenti alla notizia del prosieguo dell’iter del disegno di legge C – 63, pubblicato a febbraio e dal cui testo si è giunti all’Online Harms Act. “Riposa in pace libertà di parola”, ha scritto un utente canadese, mentre un altro ha ipotizzato che il primo ministro voglia assumere “un ruolo da dittatore”.
La versione del governo canadese
Ovviamente – come dicevamo – non sono mancate le giustificazioni da parte del governo canadese, che non vorrebbe altro che “frenare l’incitamento all’odio online”. E, a questo fine, starebbe facendo scandagliare i contenuti che conterrebbero “estremismo” e “violenza” e quelli dannosi per i minori. Cosa Trudeau intenda per “estremismo” e “violenza” non è però chiaro, né cosa consideri dannoso per i minori, giacché nei fatti a eccezione di molti post di dissenso silenziati tutto è rimasto praticamente immutato. E se tanti sono stati i proclami del governo canadese per proteggere i bambini dallo sfruttamento online, nei fatti nulla è stato fatto per rendere più attiva la macchina della giustizia quando si tratta di punire molestatori, pedofili e altre categorie che inquinano la rete.
Un recente sondaggio dell’Istituto Leger, del resto, ha rilevato che meno della metà dei canadesi pensa che l’Online Harms Act si tradurrà in un’atmosfera più sicura online. Parte degli interpellati hanno infatti detto di essere “diffidenti” nei confronti della capacità del governo di proteggere la libertà di parola.
ESTERI
Il record di Biden suggellato da un report. In una cosa ha superato Trump, Biden e Obama
Un rapporto di questo fine settimana pubblicato dal New York Post ha osservato che solo nel 2023 il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha trascorso 138 giorni in vacanza in luoghi come Rehoboth Beach nel Delaware o a Camp David. Questo significa che Biden non solo si è dimostrato incurante degli scandali che stanno travolgendo la sua famiglia e il figlio Hunter in particolare, ma anzi ha speso più di un terzo dell’anno – il 37%, per la precisione — a non lavorare.
Questa tendenza non è nuova per Biden, anzi è un qualcosa che è iniziato nel 2021 ed è continuato nei due anni successivi. Nel corso della sua presidenza, secondo il Comitato nazionale repubblicano (RNC), Biden ha trascorso ben 417 giorni in vacanza. Attualmente si trova a St. Croix, nelle Isole Vergini, per festeggiare il Capodanno.
Un rapporto del New York Post ha osservato che ogni anno il presidente Biden ha preso più giorni di vacanza lontano dalla Casa Bianca rispetto ai suoi predecessori – Trump, Barack Obama e George W. Bush – durante le loro intere presidenze. Trump si è assentato dalla Casa Bianca 132 giorni in quattro anni. Bush ha trascorso 100 giorni del suo mandato nel suo ranch in Texas, mentre Obama, osserva il rapporto, ha passato 38 giorni lontano dagli impegni istituzionali.
L’ex presidente Donald Trump – in corsa per le presidenziali del 2024 – ha puntualizzato che il record mostra la lontananza di Biden dagli impegni assunti, e che lo stare continuamente in spiaggia impedisce al presidente in carica di compiere qualunque lavoro effettivo per il Paese. Anche se – è il commento ironico affidato ai giornalisti – la lontananza dai suoi uffici non è necessariamente negativa: “Se solo Biden fosse andato in quella spiaggia dove va così tanto e si fosse seduto lì cercando di sollevare la sedia, che pesa circa tre once, allora le cose sarebbero andate meglio per il Paese. Almeno non avrebbe distrutto il lavoro dei suoi predecessori”, ha detto Trump di recente.
I commenti sono arrivati durante l’ultima intervista di oltre due ore rilasciata a Breitbart News lo scorso giovedì dalla sua dimora di Mar-a-Lago, nel sud della Florida.