Le “macchine mortali” e il bello di restare umani
Nel 2018 il mainstream nostrano distrugge la pellicola di Christian Rivers, forse perché contiene tutto quello che a certe latitudini non piace: la critica al potere, la reazione al sopruso, un senso di giustizia che non si può sopire. Nelle scene iconiche e nei paesaggi mozzafiato di Christian Rivers la tecnologia disumanizzante e le soluzioni finali pensate dai piani alti ne escono distrutte. Trionfano al contrario la speranza, i sentimenti umani, i legami veri, gli ideali
L’altro giorno ho ripescato un film che è uscito nelle sale nel 2018 e che vale la pena rivedere, oggi, per la riflessione sul transumanesimo e il piglio rivoluzionario dei protagonisti. Parlo di “Macchine Mortali”, pellicola di fattura neozelandese ispirata all’omonima saga letteraria di Philip Reeve. E’ un film di fantascienza che piacerà senz’altro agli appassionati del genere steampunk, vista la quantità di vapore distopico che si respira e le tonnellate di ingranaggi retrò sparsi ovunque. Su alcuni di questi si muove quel che rimane dell’intera città di Londra, che in questo futuro immaginato è composta da un manipolo poco sveglio e guerrafondaio di esponenti delle classi elitarie. La macchina londinese immaginata dal regista Christian Rivers è una via di mezzo tra Il Castello errante di Howl e Mad Max, una struttura temibile che si sostiene saccheggiando risorse e schiavizzando altre popolazioni. Anche la scelta della città, del resto, è evocativa, e riporta a quel 1984 che ha lasciato un po’ il segno in tutti coloro che si approcciano al genere.
La trama
La città ambulante di Londra è guidata dal dittatore Thaddeus Valentine che, si scoprirà guardando il film che non lesina gli effetti speciali e neppure qualche piccolo colpo di scena, ha un legame temporale con Ester Shaw, la ribelle che a inizio storia tenterà un regolamento di conti. Fin qui niente di che, anche perché l’inizio è caratterizzato da una trama un po’ ingarbugliata che però saprà riprendersi il suo spazio con il tentativo di Valentine di colonizzare (a conti fatti distruggere) gli anti-trazionisti che vivono nella natura e in villaggi solidali abbarbicati al di qua di un ampio muro. Sono coloro che hanno scelto di stare fermi e solidi, gli “stazionisti” minacciati da una Londra mossa da uno spirito colonizzatore che le costerà caro.
Cruciale è la figura di Pandora e quella del cyborg Shrike, il “non vivo” con un passato da umano che cresce Ester dopo che è rimasta orfana. Nell’illusione di poter vivere in eterno, decide di far trasferire il suo cervello in un automa, un po’ come accade nell’inquietante Transcendence. Ma in “Macchine Mortali” la critica al Transumanesimo è lampante: Shrike da ammasso di metallo è un essere spietato ed egoista, ma la genuinità dei sentimenti tra Ester Shaw e Tom Natsworthy (ex trazionista passato alla lega dei rivoltosi) lo riportano alla dimensione umana che in realtà ha sempre rimpianto e rivissuto nel corso dei suoi flashback “mentali”.
Il parere negativo della critica mainstream lo rende ancora più prezioso
C’è da dire che in Italia “Macchine Mortali” è stato demolito dai critici. C’è chi lo ha definito “un disastro da 125 milioni di dollari”, chi un “bellissimo flop”, per il resto è stato pressoché ignorato. Per quanto riguarda le reazioni internazionali, la produzione del film si è detta “surclassata” dalla pellicola molto più popolare e popolana che usciva nelle sale negli stessi mesi del 2018, e cioè “Avengers – Infinity War” di fattura Marvel. Ma a ben guardare il motivo della disaffezione del mainstream è un altro: in “Macchine Mortali” c’è tutto quello che a certe latitudini non piace: la critica al potere, la reazione al sopruso, un senso di giustizia che non si può sopire. Nelle scene iconiche e nei paesaggi mozzafiato la tecnologia disumanizzante e le soluzioni finali pensate dai piani alti ne escono distrutte. Trionfano, al contrario la speranza, i sentimenti umani, i legami veri, gli ideali. Tutte cose che bisogna saper riconoscere per poterle apprezzare e, certo, non è roba per tutti.
ARTE & CULTURA
Riferimenti e segreti de “L’esorcista del Papa”
L’Esorcista del Papa non è quello che si definirebbe un horror in senso lato. Non mancano, certo, le scene con un po’ di tensione e tutto il corollario caro al genere, anche se l’effetto di alcune trovate è più comico che spaventoso. Rimane comunque una pellicola permeata di simbolismi, mistero, segreti e riferimenti a quelli che sembrano fatti di cronaca realmente accaduti, ma rivisitati in chiave romanzata.
La storia di padre Gabriele Amorth – impersonato da un inedito Russell Crowe – si apre a Tropea, in Calabria, negli anni ’70. È li che il prete si misura con il caso di possessione di un ragazzo, che risolve suscitando, però, le ire del Vaticano. Ben presto si trova infatti a dover relazionare sull’accaduto davanti a una Commissione risoluta a demansionarlo.
Non si ferma, tuttavia, la sua attività, che prosegue fino al caso più difficile. Sarà la storia di una famiglia ad allontanarlo provvisoriamente dall’Italia per catapultarlo in Castiglia, dove svelerà un segreto sepolto da secoli e si districherà in uno dei 200 luoghi sparsi per il mondo governati dal maligno.
Il film è attraversato dalla storia spesso evocata da Padre Amorth di Rosaria, una giovane cittadina del Vaticano che chiede aiuto al prete. Qualcuno ci ha visto un riferimento al caso di Manuela Orlandi, a cominciare dall’anno della scomparsa citato nel film, il 1983. Nell’Esorcista del Papa, comunque, non si segue alcuna pista ma ci si limita alle suggestioni visionarie del protagonista.
FILM
“The Report” e l’altra faccia dell’11 settembre
“The Report” è un docufilm diretto da Scott Z. Burns che racconta senza troppi fronzoli le manipolazioni piscologiche e le torture moderne utilizzate dalla CIA contro i prigionieri di guerra rinchiusi nei cosiddetti Black sites dopo i fatti dell’11 settembre. Senza fronzoli perché a guidare la narrazione è l’adesione scrupolosa ai fatti e ai documenti della storia recente
“The Report” è un docufilm diretto da Scott Z. Burns che racconta senza troppi fronzoli le manipolazioni piscologiche e le torture moderne utilizzate dalla CIA contro i prigionieri di guerra rinchiusi nei cosiddetti Black sites dopo i fatti dell’11 settembre. Senza fronzoli perché a guidare la narrazione è l’adesione scrupolosa ai fatti e ai documenti della storia recente. Tra piloni di scartoffie, in una stanza sotterranea con una squadra ridotta all’osso, si muove Daniel J. Jones, investigatore del Senato degli Stati Uniti presentato con il suo vero nome e la sua vera qualifica.
Il film ne racconta le vicende che lo hanno portato a confrontarsi con una realtà fino a quel momento sommersa. Dopo una rapida scalata all’interno dell’FBI e di altri organismi di Intelligence, diventa assistente della senatrice Dianne Feinstein, democratica a suo agio nel suo ruolo di potere, oggi 89enne. Negli anni riesce a scalfirne riserve e il clima di protezione di agenti colpevoli di crimini atroci, di torture e di manipolazioni che Jones porterà allo scoperto grazie a un lavoro certosino lungo anni. Svelerà, alla fine, in cosa consistevano i fantomatici “interrogatori avanzati”.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
FILM
In “Memory” la piaga del traffico umano di minorenni negli USA
La storia ha come protagonista Alex Lewis (Liam Neeson) e come eminenza grigia Davana Sealman, una Monica Bellucci senza scrupoli convinta dell’utilità della manipolazione genetica: “Il DNA è un algoritmo”, dice mentre si fa curare dal medico che oltre alla situazione salutare ne custodisce i segreti peggiori. E’ lei il caposaldo della tratta minorile in cui Alex, sicario con un suo codice etico, si ritrova immischiato suo malgrado
Il 2022 è stato l’anno della ripresa cinematografica post-covid, complici il ritorno del pubblico nelle sale e alcune iniziative culturali. Se si getta l’occhio sulle produzioni nel loro complesso, si nota che ci sono sempre più film realistici o con riferimenti precisi all’attualità. Il 15 settembre per esempio è uscito nelle sale “Memory” che non è, come si può pensare al primo impatto giudicando dal titolo, un thriller psicologico.
La storia ha come protagonista Alex Lewis (Liam Neeson) e come eminenza grigia Davana Sealman, una Monica Bellucci senza scrupoli convinta dell’utilità della manipolazione genetica: “Il DNA è un algoritmo”, dice mentre si fa curare dal medico che oltre alla situazione salutare ne custodisce i segreti peggiori. E’ lei il caposaldo della tratta minorile in cui Alex, sicario con un suo codice etico, si ritrova immischiato suo malgrado per una serie di regolamenti dei conti.
Il suo è un cammino irrequieto che attraversa tutto il Texas e il Nuovo Messico, alla ricerca di magnati disumani e di fili da riagganciare al meglio delle sue possibilità: non deve combattere solo con i trafficanti, ma con una memoria che si fa sempre più fievole a causa dell’avanzare dell’alzheimer. Nella lotta non è solo come crede: anche l’agente Serra (Guy Pearce) con due sottoposti cerca di mettere insieme i pezzi, contravvenendo agli ordini dei vertici dell’FBI che vorrebbero insabbiare tutto.
Abituato a uccidere per lavoro, Alex Lewis cambierà pelle e si dimostrerà più umano dei criminali quando capirà che a essere immischiati nei loro giri ci sono malcapitati minorenni. Risoluto, a quel punto, a fare giustizia a suo modo, si trasformerà in una sorta di eroe-punitore che salva e fa soccombere allo stesso tempo.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it
FILM
Virus e biolab militari nella pellicola svedese “Granchio nero”
Opera prima per lo scrittore Adam Berg, che dopo alcune esperienze con i cortometraggi ha confezionato un film di azione denso di tensione, drammatico e a tratti inquietante, che però lascia spazio a una speranza finale
Un futuro catastrofico caratterizzato dalla guerra, civili ridotti in cattività e un team di militari selezionati costretti ad attraversare il mare ghiacciato per portare a compimento una missione riservata. Sono i tratti salienti di “Granchio nero”, pellicola svedese del 2022 di Adam Berg. E’ l’opera prima per lo scrittore, che dopo alcune esperienze con i cortometraggi ha confezionato un film di azione denso di tensione, drammatico e a tratti inquietante.
Non è dato sapere con precisione in che periodo storico e in quale contesto geografico agiscano i personaggi: quel che è certo è che si tratta di un Paese nordico e che socialmente ed economicamente non va tutto alla grande. Berg tesse una trama fitta che incrocia la storia di Caroline Edh e di sua figlia con l’evolversi del viaggio suicida che solo alcuni riusciranno a portare a termine, anche se a caro prezzo. La cosa surreale: i militari si lanciano sul mare ghiacciato a bordo di semplici pattini, perché le lastre di ghiaccio sottile a stento reggono il peso di una persona e del equipaggiamento che pesa venti chili.
Li spinge a fare la traversata il trasporto eccezionale di due capsule di cui non conoscono il contenuto, che devono proteggere a costo della vita. Iniziano a titubare quando comprendono che stanno rischiando tutto per proteggere un virus che, scoprono, i loro superiori vogliono venga usato per decimare gli internati nei campi di smistamento. Lì c’è (forse) la figlia di Caroline, e lì è finita la protagonista quando è stata strappata dalla sua routine familiare ed è stata costretta ad arruolarsi. Il finale è realmente degno di un action, e forse è l’unica cosa che poteva essere pensata in maniera più originale. Si svolge in un bio-laboratorio ad alto livello di sicurezza e nonostante le atmosfere cupe e le scene a volte cruente consegna una speranza allo spettatore.
Edh, di nuovo decisiva, ormai stravolta nel suo essere e nella sua umanità dopo l’esperienza bellica e dopo il viaggio che travalica i limiti del sopportabile, non ha più nulla da perdere e si concede l’ultimo gesto eroico che salverà la vita di migliaia di persone.
Rec News dir. Zaira Bartucca – recnews.it