ARTE & CULTURA
I pittori fiamminghi e quella maniera di mescolare i colori che fece scuola
di Paolo Battaglia La Terra Borgese*
I fratelli Van Eyck mostrarono ai loro colleghi di Gand una maniera interamente nuova di mescolare i colori. Non fu una scoperta fortuita, né repentina. Già al tempo dei Greci i pittori si preoccupavano di trovare una sostanza capace di legare i colori, così che restassero inalterabili e appiccicati alla materia su cui li applicavano, e non perdessero la brillantezza. Avevano provato l’aceto, il bianco d’uovo e altre misture: e i tentativi proseguirono per secoli. Nel medioevo gli artisti continuarono a servirsi, per la pittura murale, della tecnica dell’affresco.
Quando invece si trattava di eseguire dei dipinti trasportabili, bisognava rivestire di tela la tavoletta di legno, poi rivestire la tela con due o tre strati di gesso, poi strofinare il gesso finché risultasse liscio e lucido come il marmo. Finalmente su questa superficie venivano trasferite le linee preliminari del disegno, come oggi i disegni a matita sulla pietra litografica. Di regola era usato un fondo verdognolo o bruno, e su questo erano poi applicati i colori richiesti dal caso, legati con bianco d’uovo. Ma ogni singola pennellata era definitiva: nel senso che risultava difficile rimediare ad eventuali deficienze ed eseguire correzioni. C’era inoltre l’inconveniente che talvolta i colori non tenevano, e dopo qualche tempo il fondo bruno o verdognolo dava a tutto il dipinto un aspetto macabro, sinistro.
Finalmente, nella prima metà del Quattrocento, si sparse la voce (che fece drizzare le orecchie ai pittori italiani – la rete pullula di racconti) che nelle remote Fiandre era stato scoperto un nuovo modo di preparare i colori, ma nessuno riusciva a sapere di che si trattasse, perché naturalmente, il segreto era gelosamente custodito. Già: tutti muti come pesci. Si seppe solo che gli inventori erano due fratelli, nativi di Maeseyk nel Belgio, e chiamati Huybrecht e Jan van Eyck. Huybrecht (1366 – 1426) era il primogenito, e Jan era il suo apprendista.
Anche il loro modo di dipingere si differenziava da quello degli Italiani, perché questi ultimi provenivano, per così dire, dalle file dei mosaicisti, mentre i Fiamminghi, all’origine, si erano specializzati nella miniatura di manoscritti. Nel mezzogiorno dei Paesi Bassi questi manoscritti erano apprezzatissimi e perciò raggiungevano prezzi molto elevati, che i borghigiani di Gand e di Bruges non si facevano scrupolo di pagare perché erano, dopo i Fiorentini, i più ricchi mercanti d’Europa. Le due città erano sufficientemente distanti dal mare per non risultare esposte agli attacchi dei pirati, e per giunta erano allacciate per vie fluviali con le città dell’interno d’Europa; così che godevano di una situazione ideale per agire da intermediarie tra il continente e le Isole Britanniche.
L’Inghilterra era a quel tempo remota dal resto del mondo. Per lunghi secoli era stata alla mercé di qualunque tribù scandinava o germanica alla quale saltasse il ticchio di attraversare il Mare del Nord. Finalmente era stata conquistata da un duca normanno. L’usurpatore non solo le impose l’uso della propria lingua e delle proprie leggi, ma introdusse nell’isola anche l’architettura e le arti che erano in onore nei suoi possedimenti continentali. La cattedrale di Durham, infatti, iniziata nel 1093, ventisette anni dopo la battaglia di Hastings, era in origine di stile romanico, ma durante i cento anni che occorsero alla sua costruzione subì i mutamenti imposti dalla nuova moda e finì per risultare un edificio di stile gotico. E anche nelle chiese di data posteriore – di Wells, di Peterborough, di Westminster – il gotico prevalse, sebbene modificato dal gusto insulare degli architetti locali.
E niente, forse nel campo dell’arte l’Inghilterra procedette abbastanza benino dopo la conquista normanna, ma in quello del commercio certamente restò in coda. Quanto alle industrie: macché, era impossibile che fiorissero in quel paese dilaniato dalle lotte feudali. Si può dire che durante tutto il medio evo, l’Inghilterra avesse un solo articolo d’esportazione: la lana. Le Fiandre, invece, godendo di un periodo di relativa tranquillità, poterono dedicarsi all’industria tessile; tessevano la lana che importavano dall’Inghilterra, e vendevano i prodotti finiti in tutta l’Europa occidentale. In altre parole, detenevano il monopolio del commercio della lana. E, come accadde anche a Firenze, non appena i capitalisti ebbero accumulato risparmi, li impiegarono in ogni sorta di investimenti.
Anche la politica (e/o finanza) internazionale (e te pareva) contribuì al destino delle Fiandre. Esisteva a quel tempo nel cuore dell’Europa una specie di Stato, che è scomparso da molto tempo. Aveva cominciato ad acquistare importanza quando il figlio di Carlo Magno divise tra i suoi tre figli l’eredità paterna: era il paese noto sotto il nome di Borgogna. Cadde nelle mani di una famiglia ducale, capacissima e priva di scrupoli, che mirava a farne un vasto regno stendentesi dal Mediterraneo fino al Mare del Nord.
Se avesse potuto fondarlo, e se questo regno avesse potuto mantenersi indipendente, sarebbe stata una manna per il resto dell’Europa, perché avrebbe costituito uno Stato cuscinetto tra la Francia e la Germania e forse evitato un gran numero di guerre. Ma l’obiettivo non fu raggiunto. Tuttavia la Borgogna, all’apice del suo sviluppo, fu alla testa di tutta l’Europa per quanto si riferisce al benessere dei suoi abitanti, e i suoi duchi conducevano una vita di lusso adeguata ai cospicui fondi di cui disponevano.
Alla fine, i Duchi di Borgogna furono messi fuori combattimento da uno dei più odiosi personaggi che abbiano mai occupato il trono di Francia, ma durante il periodo della loro prosperità, realizzarono grandi cose. Chi visiti Bruges e Gand anche oggi dopo il loro letargo secolare, riesce facilmente a ricostruire lo sfondo di magnificenza sul quale spiccarono le figure di quei Duchi, sempre primi attori in tutti i drammi dell’alta società medioevale.
Questo lo scenario sul quale i fratelli Van Eyck fecero la loro comparsa al principio del Quattrocento. Vissero la maggior parte della loro vita nelle Fiandre. Lavoravano lentamente ma con deliberatezza, e la loro produzione fu limitata. Il loro stile era identico; tanto che ci è impossibile, studiando il celebre fronte d’altare della chiesa di Saint-Bavon di Gand, stabilire dove Huybrecht abbia smesso il lavoro che Jan portò a compimento. La loro abilità venne immediatamente riconosciuta dai contemporanei.
Huybrecht era pittore di corte presso il Duca di Borgogna che risiedeva a Bruxelles, mentre Jan fu dapprima pittore di corte presso il Conte d’Olanda, che per lo più risiedeva in quel suo padiglione di caccia che doveva diventare la città dell’Aja. Dopo la morte del fratello, Jan fu nominato pittore di corte del Duca di Borgogna. Nel 1428 fece parte dell’ambasciata che Filippo il Buono spedì a Lisbona per chiedere la mano di Isabella del Portogallo, ed eseguì il ritratto della futura sposa. Huybrecht morì a Gand nel 1426 e fu sepolto nella cattedrale dov’era (ed è) esposta la sua celebre Adorazione dell’Agnello. Jan morì a Bruges nel 144I e fu sepolto nella chiesa di San Donato.
Questo è all’incirca tutto quel che sappiamo sul loro conto. Ma è sufficiente per permetterei di vederli abbastanza bene. Erano due onesti lavoratori, paghi di essere riconosciuti come tali, ma consapevoli del valore delle loro opere e del rispetto che entrambi meritavano come maestri. All’esordio della loro carriera dipingevano solo soggetti religiosi, ma uscirono da questo campo e tentarono il ritratto. Il celeberrimo ritratto del giovane Arnolfini con la sposa, tradisce – nella cura dei particolari – il tocco di artisti cresciuti nella scuola di miniatori di manoscritti. I loro paesaggi, e le nature morte, rivelano una meticolosità di osservazione e di esecuzione che ci dice, sulla vita del tardo medioevo, più di quanto potrebbero dire interi volumi di parole stampate.
Così dicasi degli altri pittori che lavorarono nelle Fiandre in quel periodo di tempo o in quello immediatamente successivo. C’era Rogier van der Weyden da Bruxelles, il primo tra i Fiamminghi che visitarono l’Italia a scopo di studio. C’era Hugo van der Goes, che lavorò anche per le fabbriche d’arazzi e di vetri istoriati di Bruxelles e di Gand. C’era Gerard David, il primo tra gli Olandesi a salire in fama di pittore, e anche l’ultimo dei grandi maestri della scuola fiamminga; e c’era Hans Memling, un tedesco che dopo aver studiato a Colonia si trasferì a Bruges e vi dipinse, nell’ospedale, quel meraviglioso altare di Sant’Orsola che ha conservato intatta fino ai nostri giorni tutta la sua freschezza di colorito .
Un dettaglio dell’Arcangelo Michele della Pala del Giudizio Universale – R. van der Weyden, 1445 circa
Strano modo, per la verità, o ignoto; ma certa è una cosa: i primi pittori ad olio sapevano preparare i colori così che i loro dipinti resistettero al tempo e al clima molto meglio di numerosi quadri eseguiti nei secoli seguenti. È vero che lavoravano nelle migliori condizioni possibili. Avevano tutti gli assistenti che occorrevano e non avevano bisogno di affrettarsi. Non erano mai disturbati da chiamate telefoniche. Ed erano artigiani ancora rispettosi delle sane regole tradizionali.
La rinomanza di questi pionieri fiamminghi si propagò rapidamente, promovendo un nuovo entusiasmo per la pittura in Germania, specialmente nella valle del Reno. Aprì la strada e diede anzi l’avvio alla pittura olandese. In Italia, poi, determinò una vera “corsa al rialzo”. Ma nelle Fiandre la scuola dei grandi primitivi cessò con la stessa subitaneità con cui era sorta. Più tardi risorse, con Brueghel, Rubens e Van Dyck.
ARTE & CULTURA
Munch a Milano dopo 40 anni. Con una retrospettiva
Dal 14 Settembre 2024 al 26 gennaio 2025 Palazzo Reale renderà omaggio a uno dei più grandi artisti del Novecento, con un percorso di 100 opere eccezionalmente prestate dal Munch Museum di Oslo. L’ampia retrospettiva racconterà l’intero percorso umano e artistico di Munch, esponendo opere tra le più note e iconiche della storia dell’arte.
Dopo 40 anni dall’ultima mostra a Milano, Edvard Munch (Norvegia, 1863 -1944) viene celebrato con una grande retrospettiva promossa da Comune di Milano – Cultura con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia in collaborazione con il Museo MUNCH di Oslo.
Tra i protagonisti della storia dell’arte moderna, Munch è stato uno dei principali artisti simbolisti del XIX secolo ed è considerato un precursore dell’Espressionismo, oltre a essere un maestro nell’interpretare le ansie dell’animo umano.
La mostra – curata da Patricia G. Berman in collaborazione con Costantino D’Orazio per il supporto nella redazione dei testi di approfondimento in mostra – racconta tutto l’universo dell’artista, il suo percorso umano e la sua produzione grazie a un percorso di 100 opere, tra cui una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895) custodite a Oslo, La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901) e Danza sulla spiaggia (1904).
Ad arricchire la mostra milanese, è previsto un ricco palinsesto di eventi che coinvolgerà diverse realtà culturali della città e che andrà ad approfondire la figura dell’artista e ad espandere i temi delle sue opere.
L’ARTISTA
Munch è uno degli artisti che ha saputo meglio interpretare le inquietudini dell’anima, comunicandoli in maniera potente e diretta. Plasmato inizialmente dal naturalista norvegese Christian Krohg, che ne incoraggiò la carriera pittorica, negli anni Ottanta del Novecento si recò a Parigi dove assorbì le influenze impressioniste e postimpressioniste che gli suggerirono un uso del colore più intimo, drammatico ma soprattutto un approccio psicologico.
A Berlino contribuì alla formazione della Secessione Berlinese e nel 1892 si tenne la sua prima personale in Germania, che non fu compresa: da quel momento in poi Munch viene percepito come l’artista eversivo, alienato dalla società, un’identità in parte promossa dai suoi amici letterati.
A metà degli anni Novanta del XIX secolo si dedicò alla produzione di stampe e, grazie alla sua sperimentazione, divenne uno degli artisti più influenti in questo campo. La sua produttività e il ritmo serrato delle esposizioni lo porteranno a ricoverarsi volontariamente nei sanatori a partire dalla fine degli anni Novanta del XIX secolo.
Dopo aver vissuto gran parte della sua vita all’estero, l’artista quarantacinquenne tornò in Norvegia, stabilendosi al mare, dipingendo paesaggi e dove iniziò a lavorare ai giganteschi dipinti murali che oggi decorano la Sala dei Festival dell’Università di Oslo. Queste tele, le più grandi dell’Espressionismo in Europa, riflettono il suo sempre vivo interesse per le forze invisibili e la natura dell’universo.
Nel 1914 acquistò una proprietà a Ekely, Oslo, dove, da celebre artista internazionale, continuò il suo lavoro sperimentale fino alla morte, avvenuta nel 1944, appena un mese dopo il suo ottantesimo compleanno.
LA MOSTRA
Nel corso della sua lunga vita Edvard Munch realizzò migliaia di stampe e dipinti. Essendo tanto un uomo d’immagini quanto di parole, riempì fogli su fogli di annotazioni, aneddoti, lettere e persino una sceneggiatura per il teatro. L’esigenza di comunicare le proprie percezioni, il proprio “grido interiore”, lo accompagnò per tutta la vita, e proprio questa attitudine è stato il motore della sua pratica come artista, che ha toccato tanto temi universali – come la nascita, la morte, l’amore e il mistero della vita – quanto i disagi connessi all’esistenza umana e le sue instabilità.
Questa mostra ruota attorno al ‘grido interiore’ di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni.
Altre opere, invece, cercano di immortalare le forze invisibili che animano e tengono insieme l’universo. L’inizio della sua carriera coincide infatti con cambiamenti radicali nello studio della percezione: alla fine dell’Ottocento è in corso un dibattito tra scienziati, psicologi, filosofi e artisti sulla relazione tra quello che l’occhio vede direttamente e come i contenuti della mente influiscono sulla nostra vista. Il suo interesse per le forze invisibili che danno forma all’esperienza, condizionerà le opere che lo rendono uno degli artisti più significativi della sua epoca.
Quando Braque espose alcuni paesaggi al Salon d’Automne del 1908, rifacendosi in parte a Cézanne, qualcuno osservò che dipingeva con “piccoli cubi”. Era Matisse
“To’, guarda i cubi”, disse esattamente Matisse fermandosi ad osservare i paesaggi di Braque in cui le case somigliavano a dadi. La frase fece il giro di Parigi, fu ripresa dai giornali e dalla battuta spiritosa nacque il termine di Cubismo, che stava a indicare un’estetica nuova: l’artista guarda un oggetto reale, lo decompone nei suoi elementi e lo riorganizza secondo un ordine intellettuale, che non ha più nulla a che vedere con la realtà.
Quando Braque espose alcuni paesaggi al Salon d’Automne del 1908, rifacendosi in parte a Cézanne, qualcuno osservò che dipingeva con “piccoli cubi”.
Dalla battuta spiritosa nacque il termine di Cubismo, che stava ad indicare un’estetica nuova: l’artista guarda un oggetto reale, lo decompone nei suoi elementi e lo riorganizza secondo un ordine intellettuale, che non ha più nulla a che vedere con la realtà.
La Natura morta che riproduciamo (in alto, nella foto, un dettaglio) è del 1912, appartiene cioè al periodo del cubismo “analitico”.
Poiché gli si rimproverava un certo ermetismo, Braque introdusse a quel tempo nelle sue composizioni un elemento nuovo, che doveva riallacciare il quadro al mondo reale: le lettere tipografiche, come in questa scritta incompleta, Journal (procedimento introdotto per la prima volta da lui nell’opera Il Portoghese del 1911, e utilizzato poi largamente da tutti i Cubisti).
Questa Natura morta, una delle numerose “esercitazioni” su tale tema, non ha più alcun riferimento con la realtà. Gli oggetti che la compongono non sono riconoscibili, ma sono proiettati e scomposti sulla superficie del quadro attraverso una serie di grandi piani.
È riconoscibile invece la loro materia: superfici in falso legno, frammenti in falso marmo si richiamano a una realtà esistente, a un mondo concreto. (Braque utilizzò spesso queste “imitazioni”, rifacendosi all’esperienza compiuta da ragazzo nella bottega paterna come decoratore.
Più tardi arriverà al “collage”, all’applicazione cioè sulla tela di ritagli di giornale, pezzi di stoffa, carte da gioco, riallacciati alla superficie del quadro da una pennellata, da un tocco di gouache).
Osserviamo ancora, finendo, che già in questa Natura morta Braque cerca gli accordi preziosi di colore, avvalendosi di pochi toni: una grandissima maestria.
Visitare una cattedrale o un edificio ed essere in grado di distinguerne l’epoca richiede almeno una sommaria conoscenza dei caratteri architettonici delle varie epoche e, principalmente per l’inesperto, il sapere dove posare l’occhio per individuare tali caratteristiche.
Allora, se visitiamo una chiesa, gettiamo anzitutto un’occhiata alla parte esterna, osservandone la facciata, le finestre, i portali e i contrafforti, gli archi rampanti, i campanili, fissando la nostra attenzione alle loro caratteristiche; entreremo poi nell’interno, dove osserveremo la pianta della costruzione, le colonne, i capitelli, le volte, gli archi, cercando di captarne i principali particolari costruttivi; diciamo i principali particolari costruttivi poiché, va detto subito ed è importante, non dobbiamo pretendere di voler determinare l’epoca esatta di un’opera d’architettura basandoci esclusivamente sui caratteri stilistici che abbiamo sotto gli occhi.
Le chiese, specialmente, non sono state di solito costruite in “una sola stagione” e di frequente vi si trovano mescolati e gli stili di varie epoche e i vari sistemi costruttivi. Quanti soffitti e quante facciate, per esempio, sono stati rifatti per cause diverse ed eseguiti in epoche posteriori senza preoccuparsi di rispettare la struttura originaria!
Dopo aver cercato di individuare l’epoca del monumento che visitiamo cominceremo a meglio comprenderne la possanza dell’insieme e la bellezza dei particolari e, nella nostra pochezza, saremo più preparati e meno intimiditi di fronte alla creazione d’arte che ci dà tanta emozione.
Contrariamente alla credenza popolare che lo vuole tipica espressione dell’arte tedesca (anche il Vasari la chiama, impropriamente, “tedesca”), questo stile nacque in Francia e di là si diffuse in tutta l’Europa.
Si potrebbe dire che le nuove aspirazioni ed il raffinarsi della civiltà artistica, il senso religioso ancor più legato alle cerimonie del culto ed il desiderio, forse, di esprimere il misticismo in una sinfonia di linee lanciate verso l’alto con l’arco a sesto acuto che sembra voler ripetere il gesto delle mani congiunte nell’atto di pregare, siano stati il lievito che ha contribuito allo sviluppo del passaggio dalle forme romaniche al Gotico. Inoltre, rispetto al Romanico pesante e massiccio, perché rispondente a regole costruttive empiriche, il gotico si basa sul calcolo matematico, adottando le prime regole della statica; regole che saranno poi approfondite nel Rinascimento, dominato dal sommo Michelangelo, che all’austerità ed alla forza unirà forme leggiadre ed eleganti.
Caratteristico del Gotico è l’uso diffusissimo dell’arco a doppio centro, a sesto acuto, e lo slanciarsi verso l’alto delle strutture del fabbricato.
I contrafforti che prima erano quasi dissimulati poiché inderogabile necessità costruttiva, diventano, nel Gotico, parte integrante della decorazione, legano l’edificio come in una armatura che pare voglia fare individuare i punti dove è concentrato il gioco tra il peso e il sostegno.
L’arco a sesto acuto, lanciandosi verso l’alto, richiede che i piedritti sui quali appoggia siano ravvicinati e perciò le colonne si moltiplicano. Le finestre aumentano di numero e illuminano maggiormente gli interni.
I pilastri sono dei veri fasci di colonne verso le quali vanno a terminare i costoloni e i sottoarchi.
I capitelli finiscono per essere delle specie di nicchie dove sono solitamente posate delle statue.
La decorazione è ricca, esuberante di statue e di fregi di ogni dimensione con soggetti estremamente vari. La pianta, nell’architettura chiesastica, è quella basilicale dove però le campate crescendo di numero – per una necessità di una più fitta serie di pilastri – diventano spesso rettangolari con il lato più lungo volto verso la larghezza della navata centrale. L’abside è sostenuta dal coro poligonale circondato da cappelle e la cripta quasi sempre è sparita.
La tipica copertura è formata dalla volta a crociera. I campanili hanno una base quadrata, ma spesso più in alto sono ottagoni.
L’Arte Gotica è originaria della fine del XII secolo ed ha avuto il suo massimo splendore nel secolo XIV. Le varie forme di Gotico si raggruppano normalmente in gotico francese, tedesco, italiano, inglese e spagnolo. Ma mentre il Gotico francese e tedesco hanno tra loro una affinità dovuta alla priorità di adozione di questo stile, il Gotico italiano rifiuta, si può dire, gli elementi decorativi stranieri e finisce col diventare un gotico a sé, con caratteristiche rispecchianti il gusto latino (S. Maria del Fiore ne è un tipico esempio). In Italia solo il Duomo di Milano si può dire rispettoso delle più pure regole costruttive e decorative del Gotico francese e tedesco. Altra caratteristica del Gotico italiano è la pittura murale che Giotto introdusse abolendo in parte le superfici a grandi vetrate che avevano tolto lo spazio necessario alla pittura.
È necessario citare fra gli esempi tipici di arte gotica in Italia, veri incomparabili gioielli (oltre alla già citata S. Maria in Fiore ed il Duomo di Milano), la Cattedrale di Orvieto, la Chiesa di S. Francesco in Assisi, S. Petronio di Bologna, il Duomo di Siena, per tacere di numerose altre chiese.
ARTE & CULTURA
Cucinotta a Rec News: “Il mio Sud nel nuovo film da protagonista” (Video e Gallery)
Maria Grazia Cucinotta è la protagonista del nuovo film di Beppe Cino “Gli agnelli possono pascolare in pace”, presentato ieri in anteprima a Roma al Cinema Caravaggio e nelle sale dall’11 aprile. Nella pellicola ambientata in Puglia è Alfonsina, donna ingenua con abitudini singolari che a un certo punto viene colta da sogni rivelatori.
Bidella in pensione devota al culto dei cari defunti e lontana dal fratello, sarà un inaspettato incontro con il Sacro a mettere ordine in tutti quegli aspetti della sua vita rimasti in ombra, e a svelare i legami e i segreti che animano il borgo pugliese dove abita. Abbiamo intervistato Maria Grazia Cucinotta a margine della proiezione dell’anteprima romana.
Quanto c’è di lei nel film “Gli agnelli possono pascolare in pace?
Di sicuro il Sud. Il Sud mi appartiene e di conseguenza c’è molto di questo suo modo di essere. Attaccata alla terra, attaccata agli affetti, attaccata alla verità. E’ anche un personaggio molto distante. E’ una bidella che ama Pasolini e sembra uscita un po’ fuori da una favola. Anche il mondo che la circonda sembra essere uscito fuori da un piccolo metaverso che si muove in un mondo moderno.
Il film ha un messaggio particolare?
Ce ne sono tanti di messaggi, tra l’altro attualissimi. Tutte le guerre sono dettate dai confini e dal potere e un po’ questo film parla proprio di questo e al fatto che tutti i confini e tutti i pregiudizi portano alla fine alla rabbia e alla non accettazione. E’ un messaggio molto importante. Tra le risate e queste visioni c’è una grande verità.
Progetti futuri che può anticiparci?
Questo film è in uscita quindi aspettiamo di vedere come va. L’11 uscirà in tutta Italia e speriamo che la gente torni al cinema.